Il dolore e il conflitto nelle separazioni coniugali
A distanza di tantissimi anni dalla prima volta, mi ritrovo a guardare nuovamente “Kramer contro Kramer” e l’impatto è ancora più intenso che in passato: all’epoca ero solo una ragazza che, frequentando con passione un corso di recitazione teatrale, stava studiando il dirompente dialogo di apertura del film (quello in cui, sin dalle prime battute, la separazione entra bruscamente e inaspettatamente in scena “Ted, io me ne vado. Ecco le mie chiavi…”). Ero dunque concentrata a tentare di rubare ogni segreto interpretativo ai due strepitosi premi oscar, Meryl Streep e Dustin Hoffman, e poco altro. Probabilmente oggi sono cambiati i miei occhi, oltre a non aver alcun “compito” da assolvere nel guardare il film: l’età e l’esperienza maturate tanto nella vita personale quanto in quella professionale, hanno decisamente modificato il gioco delle identificazioni e le mie risonanze emotive. Risultato: un film “perturbante”!
La separazione dal punto di vista di un padre
All’epoca definito dalla critica un dramma socio-psicologico, “Kramer contro Kramer” è una pellicola che ha oramai superato i 40 anni di vita, ambientata nella Manhattan di fine anni ’70, eppure capace ancora oggi di rappresentare vissuti emotivi, sfide e dinamiche di tante famiglie alle prese con gli sconvolgimenti della separazione.
Il film è particolarmente interessante perché dà ampio spazio a un punto di vista spesso trascurato nella narrazione (cinematografica e non) delle separazioni, specie fino a qualche tempo fa: quello maschile. E lo fa con una storia che capovolge il cliché “moglie abbandonata dal marito (magari fedifrago) che deve fare i salti mortali per crescere i figli da sola e lavorare”… Qui ad “abbandonare il tetto coniugale” è la moglie, Joanna, una donna talmente schiacciata dalla vita familiare e travolta da una crisi esistenziale profonda, da non riuscire a fare altro che allontanarsi, anche dal figlio di 7 anni. Il tutto avviene, apparentemente, all’improvviso, come spesso accade nelle separazioni: il vissuto è di uno strappo inatteso, intenso, sconvolgente. Tanto per il marito Ted, quanto per il piccolo Billy che semplicemente al suo risveglio non trova più la mamma e deve “adeguarsi” alla colazione preparata da un padre poco avvezzo ai fornelli e incomprensibilmente nervoso. Sarà solo il primo di una serie di cambiamenti che il dolce Billy, vittima impotente delle scelte dei grandi, vedrà avvenire nel proprio quotidiano, parallelamente al non ritorno della madre. L’abbandono diventa per lui reale e innegabile quando gli giunge una lettera chiarificatrice e dolorosa: “sarò sempre la tua mamma”, parole che suonano come un addio definitivo, una lama che produce ritiro e rabbia nel bambino.
Il film ha il merito di raccontare il delicato processo di reciproco adattamento della diade padre-bambino alla nuova dolorosa e destabilizzante situazione, e lo fa senza edulcorare, ma anzi entrando nelle pieghe dell’ambivalenza e della turbolenza di questo rapporto, un rapporto che si trasforma gradualmente. Quando viene lasciato dalla moglie, Ted è un professionista in carriera, totalmente focalizzato sul proprio lavoro, che si ritrova quindi dall’oggi al domani a dover escogitare difficili soluzioni per conciliare i suoi doveri di padre con i pressanti impegni professionali (combattendo, tra l’altro, con un capo che sente come una minaccia al rendimento lavorativo avere come dipendente un padre separato…e qui, quante madri, separate e non, conoscono bene la storia?!). Il figlio sembra essere inizialmente soprattutto una preoccupazione e un peso per Ted, (come del resto spesso accade nelle prime fasi di elaborazione di un lutto - e la separazione lo è – ci sono negazione e rabbia) ma ben presto, il padre inizia a sintonizzarsi con i bisogni del figlio, a decodificarne meglio i comportamenti e a porsi come un valido riferimento affettivo genitoriale. Un legame che diventa per entrambi fortissimo, alimentato da abbracci, dialoghi commoventi e sguardi eloquenti.
Separazione e tribunali
L’equilibrio da poco raggiunto viene però sconvolto dal ritorno di Johanna che, a distanza di oltre un anno, ritrovata un po' di serenità e attraversata la crisi con l’aiuto di un percorso psicoanalitico, è decisa a rientrare nella vita del figlio e a chiederne l’affidamento. Qui si apre la seconda parte del film, quella che – ahimè - molte coppie conflittuali conoscono: la fase delle battaglie legali, della separazione giudiziale. In assenza di accordo tra le parti, e dunque quando non è possibile procedere in autonomia ad una separazione consensuale, o trovare un accordo con l’aiuto di un mediatore familiare, i partners - ciascuno rappresentato dal proprio avvocato - chiedono a un giudice di esprimersi in merito ai motivi del contendere (solitamente assegnazione della casa, assegno di mantenimento e modalità di affido dei minori).
In questa fase Ted e Johanna lottano ciascuno per il proprio “obiettivo”, ma a dispetto di ciò il loro sguardo sembra all’inizio sinceramente attento e interessato a cogliere la verità della narrazione che l’altro fa di sé, quando è interrogato dagli avvocati. I toni però si accendono più del previsto, i legali mirano a colpire i punti deboli della controparte, a screditarne l’affidabilità genitoriale mettendo mano violentemente ad altre sfere personali. Sembra che i due vengano, loro malgrado, travolti da questa dinamica del sistema giudiziario, finendo per sentirsi minacciati l’uno dall’altra e quindi legittimati a difendersi con ancora maggiore forza. Il dolore è visibile nei loro occhi, colmi di delusione e di rabbia. Sembra non rimanere altro che puntare alla vittoria, ottenere l’affidamento del figlio, dimostrare che si è un genitore migliore dell’altro. Anche qui, quante storie mi riecheggiano tristemente!…
La sentenza è a favore della madre. Ciò sembra inizialmente un’inaccettabile ingiustizia a Ted che pensa quindi di ricorrere in appello. L’escalation è dunque a portata di mano, ma apprendere che questo implicherà necessariamente un coinvolgimento diretto del figlio che dovrà essere ascoltato in tribunale, lo fa desistere dal procedere. Il padre riesce, dunque, nonostante sia molto doloroso per lui, a decentrarsi e a prendere in considerazione in modo prioritario il bene del figlio, a proteggerlo da ulteriori traumi e triangolazioni. Sorprendentemente, allo stesso punto arriva Johanna che decide all’ultimo di lasciare Billy al padre, piuttosto che sconvolgerne nuovamente gli equilibri emotivi.
Kramer contro Kramer diventa quindi, a mio avviso, un Kramer con Kramer: lo sguardo dei due partners in contrasto si trasforma in quello di due genitori che guardano entrambi in direzione del figlio. Un film che non prevede la rassicurante ma pericolosa distinzione tra vittima e colpevole, e che vede evolvere la logica “vinco-perdi” in “vinci-vinco”.
La genitorialità condivisa
Il film si ferma qui, ma la sua conclusione che racconta di una coppia capace di bloccare l’escalation legale e di rimettere al centro del proprio sguardo il bene supremo del figlio, fa propendere per una “prognosi positiva”. Immagino due persone che, nonostante il dolore e l’iniziale frattura e incomprensibilità della separazione, saranno in grado piano piano di ricomporne un senso, dunque di andare avanti nel processo di “elaborazione” che questo evento richiede (del resto già qualche tempo dopo la “sparizione” di Johanna, Ted non è più accecato dalla rabbia o fermo nel ruolo di vittima, e fa delle ipotesi sulla sua co-responsabilità: riguardando indietro vede un marito da tempo fagocitato nel proprio lavoro e sordo alle insoddisfazioni e turbamenti emotivi della moglie…). Immagino, inoltre, che questi due genitori saranno capaci di collaborare per essere presenti entrambi nella vita del proprio figlio.
Oggi, una coppia di questo tipo, in Italia avrebbe un affido condiviso (che dal 2006 è la modalità prioritariamente valutata dal giudice anche in caso di giudiziale). In questa formula, i genitori detengono entrambi l’affidamento (diversamente dal cosiddetto “affido esclusivo”) con modalità e tempi che vengono stabiliti dal giudice nel caso di contenzioso tra le parti, o dagli stessi genitori qualora la separazione sia consensuale. In entrambi i casi, il principio ispiratore è il diritto del minore alla bigenitorialità e la garanzia del suo bene supremo (dunque lungi da una rigida interpretazione del tipo “divisione 50-50” tra mamma e papà!).
Separazione coniugale: il ruolo dello psicologo
Spesso arrivare a un accordo, senza ricorrere a una separazione giudiziale, è un “risultato” che la coppia ha bisogno di raggiungere con l’aiuto di un professionista: può accadere che rivolgendosi a un terapeuta per la propria crisi coniugale, i partners riescano a utilizzare lo spazio terapeutico per prendere una decisione in merito al futuro della propria relazione e, in caso di rottura, “elaborare la separazione” e in questa cornice costruire le basi per una consensuale.
Oppure, se la decisione della separazione è già presa, c’è sufficiente intenzione di collaborare per non inasprire il conflitto e trovare un accordo ma è difficile farlo da soli, ci si può rivolgere ad un mediatore familiare. O ancora, può accadere che sia uno solo dei partners a essere disponibile e desideroso di intraprendere un percorso di psicoterapia individuale, per affrontare le fatiche emotive che il processo separativo comporta: in questo caso, la terapia può aiutare la persona a essere più “aperta” a un atteggiamento collaborativo con il proprio ex partner, riuscendo a riconoscerne limiti e risorse e distinguendo la parte genitoriale da quella coniugale, nell’interesse del figlio.
Nelle circostanze in cui ci sia un’elevata conflittualità della coppia (caso estremo, ma anche frequente, quello in cui sussistano denunce) o condizioni di particolare “fragilità” (psichica o di altro tipo) di uno o entrambi i partners, l’intervento del giudice è inevitabile e potrebbero aprirsi altri scenari, quali CTU, affidamento ai Servizi, etc. In tutti i casi, pur nelle situazioni più complesse, il principio ispiratore rimane il bene supremo del minore e il suo diritto alla bigenitorialità, motivo per cui qualora fosse necessario e possibile, si predispongono dei percorsi finalizzati al recupero delle capacità genitoriali, per favorire il ricongiungimento dei figli con i propri genitori.
Si fa un gran parlare, in questi giorni, della temuta "seconda ondata"...sta veramente arrivando? cosa accadrà? al sistema sanitario, all'economia, alla nostra vita relazionale ed emotiva... Si tornerà necessariamente a fare terapia esclusivamente on-line?
E mentre tante altre domande, riflessioni ed emozioni si affollano nella mia mente e nella mia pancia (come in quelle di ognuno di noi in questo delicato periodo, del resto) mi ritrovo, probabilmente non troppo casualmente, a "inciampare" su uno strano file dimenticato come spesso mi accade sul desktop....Porta il titolo di "Pensieri quarantenanti", trattasi di una bozza di riflessioni buttate giù in un giorno di lockdown, nella fase di passaggio tra fase 1 e fase 2...
La condivido con piacere ora, "a scoppio ritardato", perché ho la sensazione che possa muovere altri pensieri ed emozioni, come quando si sfoglia un album fotografico: cosa è cambiato? come siamo cambiati? cosa cambierà?...
Pensieri quarantenanti…
La quarantena non dovrebbe durare quaranta giorni?! Qui siamo al limite, che tende all’infinito come negli integrali di matematica…
“Lontani ma vicini”, non è che tra un po' si trasforma nel suo opposto “vicini ma lontani?”... Avremo gradualmente la possibilità di uscire e muoverci un po' di più, ma che ne sarà della nostra DIFFIDENZA e PAURA? Riusciremo ad avvicinarci (non solo fisicamente, quanto soprattutto emotivamente) all’altro, diventato oramai il nostro potenziale invisibile nemico, l’untore… Il nostro corpo si fiderà ancora del contatto?
Le nostre CASE in questo periodo si sono trasformate.
Sono state per ciascuno di noi diverse cose.
Innanzitutto ci hanno protetto, come un GUSCIO o addirittura come una TANA. La prima immagine rimanda al fatto che sono state vissute come un luogo in cui nutrirsi e crescere in sicurezza per prepararsi ad una sorta di (ri)nascita. Tante le persone che, in effetti, hanno con più o meno sorpresa scoperto di potersi finalmente dedicare con calma a interessi trascurati, attività creative, studio…
La seconda immagine, invece, rimanda all’utilizzo psicologico che molte persone hanno sentito di fare della propria casa, diventata un luogo in cui rifugiarsi per mettersi al sicuro dagli eventuali attacchi esterni e ricaricarsi prima di tornare fuori. In entrambi i casi il nostro immaginario ha attinto al mondo animale, alla Natura che non a caso “si sta riprendendo i suoi spazi” e che tanto sembra poterci insegnare, se vorremo ascoltarla e osservarla, con rispetto…
Per qualcuno, però, la casa si è trasformata in una GABBIA. E anche qui, l’immagine la prendiamo a prestito dal mondo animale!... Come non comprendere la fatica emotiva di chi sta vivendo questo lungo isolamento in abitazioni di pochi mq, magari totalmente da solo, oppure con situazioni familiari di conflittualità o violenza e disagio psicologico di vario genere?!
Quando e come torneranno a poter accogliere l’altro? A essere luogo di condivisione.
La casa come specchio e proiezione del nostro mondo interno…Quando saremo pronti a ri-aprirlo? Con quali “condizioni” (ossia difese)?
Quando la psicoterapia a domicilio potrà tornare ad essere una possibilità?
Post Scriptum
1) Da settembre ho ripreso con i colleghi della mia Associazione InVerso alcune visite domiciliari...vedremo se e come proseguire. In ogni caso, skype è una grande e inattesa risorsa!
2) Scriverò un altro "flusso di pensieri" sul tema a breve, promesso! :-)
#iorestoacasa #skype
Questi che stiamo vivendo sono indubbiamente giorni molto difficili, convulsi, passati a rincorrere con preoccupazione e angoscia crescenti il veloce e subdolo propagarsi del famigerato Coronavirus e, con lui, delle numerose e a volte fuorvianti notizie presenti su giornali e social. L’OMS ci ha messo in guardia rispetto ai rischi dell’infodemia, ossia di quella sovrabbondanza di informazioni (alcune accurate e altre no) che rende difficile alle persone trovare fonti attendibili e indicazioni affidabili quando ne hanno bisogno. Eppure non resistiamo alla tentazione, siamo diventati bulimici! Cerchiamo continuamente nuovi contenuti sul tema, lo pensiamo e lo nominiamo a ripetizione, “vomitandolo” addosso a chiunque. Ma proprio come avviene nei disturbi alimentari, non ci sentiamo mai veramente nutriti, il vuoto e l’angoscia ci rimangono addosso… Inoltre, una delle conseguenze dell’infodemia è il pericoloso incentivo di comportamenti di salute – ma anche sociali – inappropriati o addirittura dannosi.
A questo punto della vicenda, però, la dimensione del fenomeno sta diventando tale da rendere fragile (per fortuna, direi!) anche il meccanismo difensivo della negazione con cui molti in questi giorni si sono protetti dall’angosciante contatto con la realtà, esponendo così ulteriormente se stessi e la collettività al rischio del contagio e della sua propagazione. I numeri parlano chiaro e, poiché questo sembrava non bastare per disincentivare condotte pericolose, sono arrivati anche i decreti del Governo a indicarci (e imporci) la strada: prescrizioni comportamentali e divieti si sono propagati come il virus dal Nord al Sud, restringendo la nostra libertà, per proteggerci. Da oggi 10 marzo tutta l’Italia è diventata “zona rossa”!
La maggior parte delle “normali” attività è sospesa o sottoposta a importanti restrizioni (chiuse scuole, palestre, pub, cinema, ristoranti, etc.). la libertà di movimento limitata a strette e improrogabili necessità lavorative o di salute. Un’atmosfera a tratti apocalittica, ma tesa a scongiurare proprio l’apocalisse. Dunque con serietà e speranza dobbiamo impegnarci tutti, collaborare.
Consulenza on-line - Lo Psicologo via skype
L’ultimo decreto è diventato un importante messaggio virale: #iorestoacasa. Ora la domanda è: e la psicoterapia?
Personalmente, nella mia attività clinica a studio nei giorni scorsi e sin dalle prime notizie di contagiati italiani, ho adottato le indicazioni precauzionali diffuse dagli esperti e prontamente raccolte dall’Ordine degli Psicologi del Veneto (in quanto Regione colpita per prima da un focolaio) in un utile vademecum: dunque niente stretta di mano salutandosi, mantenimento della distanza di oltre 1 metro durante il colloquio, igienizzazione accurata e frequente delle mani con acqua e sapone e delle superfici con disinfettanti, etc.
In questo momento così delicato, però, tutto questo potrebbe non bastare: incentivare gli spostamenti delle persone (magari sui mezzi pubblici) per recarsi presso lo studio del professionista, non è auspicabile. Per contribuire al contenimento del contagio e tutelare quindi la salute della collettività, sto riducendo le sedute vis a vis allo stretto necessario (seppure, ripeto, queste non siano vietate e possano svolgersi comunque con i dovuti accorgimenti e dunque “in sicurezza”) proponendo il passaggio a Skype. Questa piattaforma diventa una scelta necessaria e non opzionale in caso di sintomi influenzali anche lievi o di contatto stretto avvenuto negli ultimi giorni con persone risultate positive al Coronavirus.
Dallo studio dello psicologo alla consulenza Online su Skype
Fortunatamente il passaggio a Skype, suggerito ormai dai diversi Ordini professionali per gestire al meglio l’emergenza, non mi coglie impreparata: sono abituata a utilizzare questa piattaforma in alcune specifiche situazioni o momenti del processo terapeutico. Per maggiori dettagli ti invito a leggere il mio precedente articolo sulla terapia via Skype
Ovviamente ciò non significa che il passaggio dal setting in presenza a quello virtuale sia una mera questione tecnica, prima vi risonanze emotive e fattori relazionali da tenere in considerazione. Ciò che posso dire qui, però, tentando una sintesi su un argomento evidentemente articolato e complesso, è che, una volta “presa confidenza” con lo strumento e con le sue specificità comunicative (in cui per esempio mancano le informazioni olfattive e in parte prossemiche, ma permangono tutte le preziose informazioni del canale non verbale veicolate dalla mimica facciale e dalla voce), la seduta si svolge “normalmente”, sia nei modi che nei tempi. Ecco allora che può essere un’utilissima risorsa per fronteggiare un momento di isolamento come questo, permettendo di tutelare la salute e la sicurezza di ciascuno e al contempo di dare continuità al processo terapeutico. Senza dire che, la particolarità della situazione che stiamo vivendo tutti, può esporre le persone ad emozioni di paura, ansia e angoscia che si vanno a sommare e intrecciare alle pregresse condizioni di disagio per cui il percorso di terapia era in corso. Dunque, come dire, mai come in un momento del genere può esserci bisogno di un sostegno psicologico e di mantenere attivi i propri contesti terapeutici!
Per quanto tempo durerà tutto ciò? Ahimè, non è possibile fare una previsione certa, dobbiamo un po' navigare a vista in base a ciò che accade e alle indicazioni che riceveremo dagli organi preposti alla tutela della nostra salute. Posso però dire che la mia sensazione è che la situazione sia molto seria e dunque meritevole di uno sforzo di attenzione e cura da parte di tutti noi, allo stesso tempo mai come ora forse è vero che l’unione fa la forza: se abbandoniamo le nostre difensive posizioni individualiste e di negazione del problema per rimanere autenticamente connessi (e non mi riferisco attraverso i social, ma a un livello più profondo), attraverseremo questa tempesta uscendone bene. Non senza ferite, probabilmente, ma bene. Dobbiamo co-costruire questo passaggio, proprio come si fa in terapia.
Vi aspetto via Skype!
Incontrarsi e avere scambi comunicativi nello spazio virtuale messo a disposizione da diverse piattaforme on line, è oramai esperienza comune e quotidiana per la maggior parte di noi, tanto in contesti formali quanto informali: ci si videochiama tra amici e parenti, si riceve assistenza tecnica con aziende e Pubbliche Amministrazioni via chat, si fanno riunioni di lavoro via Skype, etc.
Se consideriamo che alcuni dati di qualche anno fa (Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2015) rilevavano che ben 11 milioni e mezzo di utenti in Italia fa ricerca sulla propria salute on line, possiamo avere un’idea di quale sia la situazione attuale e della ricaduta nell’ambito della salute mentale. Essere reperibili su internet per un terapeuta vuol dire rendere più accessibili i propri servizi e, allo stesso tempo, poter raggiungere più facilmente l’utenza. Questo diventa ancora più evidente quando è lo stesso servizio offerto ad essere on line.
Consulenza psicologica e terapia via Skype
Basta fare un giro sulla rete per rendersi conto di quanto sia ormai diffusa l’offerta di consulenza psicologica e psicoterapia on line. Parallelamente allo sviluppo delle nuove tecnologie e alla conseguente maggiore familiarità che ciascuno di noi (volente o nolente) ha preso con i mezzi informatici, c’è stata un’evoluzione anche nel settore dei servizi psicologici: fino a qualche tempo fa, questa prassi era vista con sospetto dagli stessi professionisti, abituati a un setting e contatto vis a vis, mentre ultimamente è entrata a pieno titolo tra le possibili modalità in cui “incontrare” l’utenza e prendersene cura, tanto che il Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi ha stilato delle specifiche linee guida.
Quando è utile Skype in una psicoterapia
Personalmente, da un po' di tempo mi avvalgo di Skype come risorsa in terapia. Mi spiego meglio: non avvio terapie via Skype sin dalla prima seduta (ossia con persone che non ho mai conosciuto e seguito vis-a-vis), bensì lo utilizzo in specifici momenti del percorso per continuare a seguire la persona che “non può” essere fisicamente presente a studio. La durata della fase on line della terapia non è definibile a priori, può essere più o meno prolungata, a seconda del caso. In altre parole, faccio sempre una valutazione clinica che deve dare sostegno e significato terapeutico alla scelta della modalità on line in quel particolare momento della terapia e per quella specifica persona.
In linea generale, posso dire che la modalità on line:
- non può essere un sostituto/equivalente dell’incontro vis-a-vis;
- può essere un prezioso strumento per mantenere la relazione terapeutica in periodi in cui raggiungere lo studio del professionista non è possibile o è estremamente “faticoso” (es: sintomi psicologici invalidanti, impedimenti fisici, trasferte/trasferimenti, etc.)
Più volte ho utilizzato Skype per proseguire terapie già avviate con giovani studenti (per esempio durante un periodo di Erasmus o nella delicata fase di rientro a casa dopo la laurea) o con lavoratori mandati dalla propria azienda in trasferta per brevi periodi.
Come si svolge una terapia on line?
Rispetto al setting temporale cambia poco: le sedute hanno la durata di circa 50 min, e avvengono a un orario (possibilmente fisso) con cadenza regolare (solitamente settimanale).
Attraverso il supporto della piattaforma Skype paziente e terapeuta possono parlarsi e vedersi.
Dunque…cosa cambia?!
Cosa cambia in una terapia on line rispetto ad una terapia "standard"
Beh, inutile dirlo, la comunicazione avviene “a distanza”, attraverso uno schermo, che “filtra” lo scambio. Il sensoriale e il non verbale sono accessibili solo in parte.
La mancanza di un contatto fisico (penso per esempio, banalmente, alla stretta di mano con cui spesso ci si saluta a inizio e fine seduta), così come di informazioni olfattive o in parte visive (generalmente l’inquadratura è limitata al volto, per cui non si può per esempio apprezzare la postura o particolari movimenti della persona), la facilità con cui si incontra l’altro (senza la “fatica” e la “preparazione” del recarsi fisicamente a studio), sono tutti elementi che possono rendere “meno coinvolgente” l’incontro, smorzandone in parte l’impatto emotivo.
Lo stesso terapeuta deve prestare maggiore attenzione e impegno per immergersi adeguatamente nello scambio, sentire la presenza e le emozioni del paziente “come se” si trovasse in stanza. Inoltre, a seconda dell’approccio e del modello teorico che utilizzata, può trovarsi di fronte ad alcune “limitazioni tecniche”.
Nel mio caso, per esempio, alcuni “strumenti” a cui ricorro abitualmente a studio, e che sono parte integrante e arricchente di un percorso sulle relazioni familiari, non sono altrettanto facilmente utilizzabili a distanza: il lavoro sul genogramma, oppure con le foto, così come con le sculture, sono momenti esperienziali che si alimentano di una emotività e fisicità che hanno bisogno dell’incontro vis a vis con il terapeuta.
Un’altra differenza, interessante e utilizzabile ai fini del lavoro terapeutico, è che la persona fa in un certo senso entrare il terapeuta dentro il proprio spazio domestico: è come se aprisse una finestra sulla propria realtà quotidiana e intimità. Certamente questo implica anche che è necessaria una maggiore collaborazione tra paziente e terapeuta per tutelare il setting e, per esempio, proteggerlo da eventuali intrusioni.
Per il resto, tutto si svolge come in una seduta classica e, soprattutto, diversi studi dimostrano che tra terapia on line e in presenza non vi è differenza in termini di efficacia.
Quando non è opportuna una terapia online?
Premesso che non esprimo alcun giudizio negativo sui numerosi colleghi che effettuano terapia on line (riferendomi a quanti lo fanno, ovviamente, con un pensiero clinico e un’etica professionale) e che non escludo di avventurarmi anch’io un giorno in questo terreno, ribadisco che la mia attuale scelta professionale è un’altra: ritengo di poter utilizzare efficacemente Skype per eventuali consulenze psicologiche, mentre per la terapia solamente come risorsa all’interno di un percorso già avviato, ossia in specifiche e circoscritte fasi del processo terapeutico.
Tentando una semplificazione, alcune situazioni in cui ritengo non opportuno l’utilizzo di Skype sono:
- setting di coppia o famiglia (per via della complessità relazionale, difficilmente “gestibile” dal terapeuta a distanza);
- psicopatologie gravi che richiedono una presenza e conoscenza del terapeuta rispetto al territorio di appartenenza del paziente (per eventuale lavoro di rete con i servizi, incontri con i familiari, etc.);
- persona che richiede la modalità on line per “comodità” (di tempo e organizzazione) o per sentirsi maggiormente a proprio agio (privacy, imbarazzo).
Nonostante, come ovvio, le situazioni vadano sempre valutate caso per caso, in linea generale non è predittivo di un buon lavoro terapeutico cercare delle “scorciatoie”: credo che la terapia passi anche attraverso la “fatica” dell’incontro autentico e completo con il terapeuta in carne e ossa. Il tempo necessario a raggiungere lo studio è un tempo di preparazione che dà senso e valore al movimento che si sta compiendo, che lascia spazio alle emozioni dell’attesa e poi dell’elaborazione. In una società che ci vuole efficienti e onnipresenti ma in modo frammentato e virtuale, la psicoterapia batte un altro tempo: è il tempo dell’essere, della presenza.
In questa cornice, nelle situazioni che lo rendano utile senza mirare ad una sostituzione del reale, Skype rappresenta una preziosa risorsa: il percorso terapeutico in precedenza svolto da terapeuta e paziente permetterà loro di “aggirare” alcune limitazioni del virtuale e vivere con maggiore pienezza l’incontro terapeutico.
"La fiducia racchiude in sé il germe del tradimento”, diceva lo psicoanalista James Hillman, come a sottolineare che affidarsi porta con sé non solo la possibilità di una esperienza relazionale profonda, una spinta rivitalizzante e progettuale, bensì anche il rischio di una delusione dolorosa. E’ da mettere in conto. Dico infatti spesso ai miei pazienti, sorpresi o spaventati per l’ansia e i pensieri negativi “stranamente” associati alla gioia di un legame in fase di avvio o che si consolida, che ciò è assolutamente “normale”: legarsi ri-attiva facilmente i fantasmi dell’abbandono e della separazione. Riuscire a tollerarli permette alla relazione di crescere e fiorire, con l’imprescindibile nutrimento della fiducia reciproca. Com’è facile immaginare, però, il processo di sviluppo della coppia in qualche modo si interrompe e subisce un trauma se i fantasmi diventano realtà, quando cioè il tradimento entra davvero nella relazione, minandola.
Che significa “tradimento”?
Ciò che viene attaccato e messo in crisi nella coppia con il tradimento è il “noi”, l’appartenenza, l’esclusività del rapporto su cui i partner hanno fondato (spesso implicitamente) il proprio patto, legandosi. Il tradimento è dunque per sua natura un atto relazionale, in cui a essere deluse, e quindi tradite, sono fiducia e aspettative.
Se andiamo a esplorare l’etimologia della parola, troviamo un significato interessante che ne sottolinea la valenza negativa: deriva dal latino “tradére” che vuol dire “consegnare”, in riferimento alla tradizione evangelica nell’ambito della quale Gesù viene consegnato ai Romani, quindi tradito da Giuda.
Eppure, facendo lo sforzo di prendere le distanze dal nostro sistema valoriale e dalle emozioni negative e dolorose inevitabilmente associate all’esperienza del tradimento, è possibile rileggerlo come una comunicazione, nel caso di quello coniugale un messaggio che la coppia (per mano del fedifrago) manda a se stessa, alla ricerca di un nuovo equilibrio: qualcosa non va più come prima, c’è bisogno di una ridefinizione!
Cambiando scenario relazionale, possiamo forse con minore fatica individuare una funzione evolutiva nel tradimento. Spostiamoci per esempio dalla relazione di coppia a quella genitori-figli: possiamo immaginare come senza alcuna esperienza di trasgressione (ossia di “uscita” dai limiti definiti nella relazione, e quindi di “tradimento” della fiducia dei genitori) l’adolescente perderebbe delle vitali esperienze di crescita, di esplorazione e confronto con i propri limiti e con i pari, di apprendimento. Aggiungiamo dunque un importante elemento alla descrizione del fenomeno: il tradimento, come ogni comportamento, nasce sempre da un bisogno.
Gli “effetti” del tradimento nell'individuo e nella coppia
Ovviamente l’impatto del tradimento è diverso e più intenso quando riguarda la sfera della relazione di coppia, proprio per quel patto di esclusività che ne regola solitamente il funzionamento.
A livello individuale
Vengono spesso rilevati nel tradito malesseri e sintomi che richiamano la sindrome post traumatica da stress, tanto che gli americani parlano di “Post Infidelity Stress Disorder”: la persona tende a rivivere ripetutamente il trauma (per esempio la scena del momento in cui ha scoperto o le è stata rivelata la verità, oppure torna in modo ossessivo a rivisitare con la memoria le situazioni precedenti alla scoperta/svelamento, in cui veniva presumibilmente ingannata, etc.), può sperimentare apatia, difficoltà di concentrazione, ipervigilanza e perdita di sonno. E’ facile che il partner tradito percepisca un attacco all’immagine di sé: l’autostima può iniziare a vacillare. Rabbia, gelosia, odio e senso di abbandono, sono alcune delle reazioni emotive più comuni.
Anche il traditore può vivere emozioni spiacevoli: senso di colpa, vergogna e paura (per esempio di essere scoperto e dare voce alla crisi di coppia). Lo stress della famosa “doppia vita” ha a che fare con la fatica che compie chi, come un bulimico, aggiunge al peso del sintomo il fatto di sentire di doverlo tenere segreto…Ebbene sì, il tradimento può essere inquadrato proprio come un sintomo!
A livello di coppia
Nella relazione di coppia il tradimento, evento traumatico, viene spesso percepito come uno “spartiacque” nel quale prendono forma un prima e un dopo. In quanto sintomo segnala che qualcosa non va, urge una ridefinizione: la crisi sottostante diventa visibile, c’è un’aggressione in grado di frantumare il rapporto o di dare l’avvio a una re-visione dello stesso.
Come per ogni evento traumatico, la sua elaborazione richiede di “attraversare” emozioni spesso molto spiacevoli e a tratti destabilizzanti: si tratta di riconoscere, esprimere, accogliere e trasformare la rabbia, il dolore, la delusione…prendersi cura di una ferita che può essere profonda.
La terapia di coppia
Partiamo da una considerazione che può, a torto, sembrare pessimista: è difficile pensare a una relazione di coppia immune dall'esperienza del tradimento. Specie se lo intendiamo in senso lato e non strettamente sessuale o sentimentale (distinzione su cui, tra l’altro, uomini e donne si trovano spesso in disaccordo): a un certo punto, quasi inevitabilmente, ci si trova di fronte a una delusione, il partner non aderisce più al 100% alle proprie aspettative, tradisce il patto del “per sempre”… Potrebbe per esempio iniziare a dedicare più spazio al lavoro o alla vita sociale individuale, oppure “far entrare” eccessivamente la propria madre nel rapporto di coppia. In ogni caso tradisce le aspettative (necessariamente in parte illusorie) su cui il legame si era fondato agli inizi. La coppia ha allora bisogno di un nuovo equilibrio, in gergo psicologico diciamo di ri-negoziare il patto, utilizzare la crisi come spinta propulsiva per uscire dallo stallo del circuito della delusione.
Quando poi il tradimento è di natura sessuale e/o sentimentale la ferita può essere ancora più dolorosa, diventa necessario prendersene cura.
La terapia di coppia è una importante risorsa in questi casi, così come in ogni situazione in cui la relazione ha perso la propria vitalità, i partner cominciano a comportarsi diversamente e circolano emozioni e pensieri negativi. La stanza di terapia diventa un luogo “protetto” in cui dare spazio alle emozioni negative e al conflitto che può derivarne, ma soprattutto dare l’avvio al necessario processo di attribuzione di senso all’evento (spesso illusoriamente percepito come inatteso, scisso dal resto della storia, o di totale responsabilità del fedifrago). I partner hanno bisogno di collocare il tradimento all’interno della propria peculiare storia, comprendere “come mai ora”, e dunque guardarsi l’un l’altro e guardare la propria relazione sia nel presente che nel suo evolversi nel tempo: come si sono conosciuti e su cosa si sono legati? quali sono stati i passaggi critici della loro relazione nel tempo? come e con quali risorse li hanno affrontati? esiste ancora una progettualità di coppia? e in tutto ciò che influenza hanno avuto e hanno le rispettive famiglie di origine e il modello di coppia che ciascun partner si porta dietro? Queste sono alcune delle aree tematiche da esplorare con la guida del terapeuta, terzo neutrale, facilitatore della comunicazione nella coppia. Un passaggio importante è far recuperare ai partner uno sguardo circolare, ossia la consapevolezza che il tradimento ha due protagonisti che, in qualche modo, hanno collaborato entrambi alla rottura del patto. Comprendere il contributo di ognuno e l’incastro relazionale su cui il tradimento è nato è essenziale per procedere nel lavoro terapeutico. Attenzione, non è detto che questo porti necessariamente alla “riconciliazione”, ossia che la coppia trovi una nuova armonia. E’ possibile che i partner si muovano poi verso una separazione. In ogni caso, si tratta di una nuova definizione della relazione, di una uscita dallo stallo della crisi segnalata dal tradimento.
Per chiudere con una frase di Aldo Carotenuto: “Se il tradimento destabilizza è perché qualche cosa si ricrei”.
La nascita del primo figlio fa entrare la coppia in un nuovo stadio del proprio ciclo vitale e sancisce in un certo senso in modo definitivo il passaggio dei coniugi nell’età adulta. Si tratta dunque di un cambiamento con un notevole impatto psicologico, sia sul piano individuale che di coppia (senza trascurare l’effetto più ampio sul sistema della famiglia allargata in cui compaiono ruoli nuovi per zii, nonni, etc.). Nella rappresentazione sociale la coppia diventa solo in questo momento una “vera” famiglia, legata in modo definitivo da un ruolo -quello genitoriale- che è per sempre.
Come è facile immaginare, il nascituro è quindi caricato di grandi aspettative e, specie quando arriva a tarda età per la donna (che ha magari dato spazio fino a quel momento e con fatica alla propria realizzazione personale e lavorativa), diventa facilmente la rappresentazione di un “bene prezioso”, quasi unico e irripetibile.
In un contesto emotivo di questo genere aumentano anche le aspettative che i neo-genitori (e in particolare la madre) hanno su di sé e sulla propria “capacità” di essere adeguati nel nuovo ruolo.
Ovviamente le risorse a disposizione di ciascun genitore variano molto a seconda del contesto. In ogni caso, anche nelle situazioni “normali”, possono non essere sufficienti a contrastare adeguatamente tale pressione: per esempio perché nel passaggio dalla famiglia patriarcale a quella nucleare è quasi venuta meno per la donna la possibilità di avere nella famiglia estesa un contenitore per le proprie angosce e un sostegno pratico. Capita quindi spesso che la neomamma si trovi sola ad affrontare un momento cruciale e sconosciuto della propria vita, in cui cambia il proprio corpo, nasce un nuovo ruolo, etc.
Inoltre, sebbene attualmente la nascita di un figlio sia quasi sempre il risultato di una scelta consapevole e una forma di realizzazione personale da parte dell’adulto, non vanno dimenticate situazioni differenti in cui la gravidanza non è desiderata e cercata, oppure si colloca in un contesto familiare di particolare fragilità che rende ancora più faticoso -per le diverse figure coinvolte, non solo per la madre- affrontare le sfide che questa fase di passaggio pone: pensiamo, per esempio, a famiglie monogenitoriali, a contesti di estremo disagio socio-economico, oppure a situazioni in cui uno dei due genitori è molto periferico e assente o estremamente inadeguato nella sua funzione genitoriale (magari perché in carcere, tossicodipendente o affetto da un disturbo psichico importante).
E’ chiaro che in queste circostanze aumentano i cosiddetti “fattori di rischio” mentre diminuiscono i “fattori di protezione”, ossia le risorse a disposizione del sistema-famiglia. Ovviamente è importantissimo focalizzarsi su quest’ultime, individuarle e promuoverle.
In quest’ottica, lì dove il disagio sia importante e la rete familiare e sociale di sostegno (anche solo momentaneamente) non sufficienti a contenerlo e trasformarlo, è utile rivolgersi all’esterno, sia esso rappresentato da un libero professionista o dal consultorio di riferimento.
Difatti, per esempio, un intervento precoce sulla relazione caregiver-bambino può essere estremamente importante, andando a ridurre lo stress e il conflitto e rafforzando il processo di sviluppo nell’interazione, lì dove (per ragioni differenti, di cui alcune ipotizzate sopra) vi siano scambi interattivi caratterizzati da modalità di cura incoerenti, instabili o scarsamente sensibili: il genitore può essere aiutato nella difficoltà a sintonizzarsi con il proprio figlio e i suoi bisogni, nella gestione del senso di frustrazione e incompetenza che può avvertire di fronte ad atteggiamenti di rifiuto del bambino, etc. Potrà così sperimentare che la genitorialità è una competenza che si costruisce (e non acquisita per dna!) attraverso un processo circolare, in cui cioè i figli non hanno un ruolo passivo, ma di scambio. Inoltre, poiché attraverso il rapporto con il proprio bambino si rivive la propria infanzia e riemergono i modelli di attaccamento sperimentati con le proprie figure di riferimento, è possibile lavorare anche su questo aspetto (per esempio in un setting psicoterapeutico).
Quando possibile l’intervento sarà rivolto ad entrambi i genitori per dare loro un sostegno rispetto ad eventuali difficoltà nella gestione di alcune sfide - i cosiddetti “compiti di sviluppo” - poste dalla nascita di un figlio:
- stabilire confini chiari tra il sistema coniugale e quello genitoriale;
- prendersi cura del bambino;
- fornire un valido modello di attaccamento affettivo ed educativo al figlio;
- ristrutturare le relazioni con i propri genitori;
- individuare le diverse regole del ruolo e delle funzioni dei nonni e dei genitori;
- ridefinire i rapporti con l’ambiente esterno (lavoro, amicizie) in base alle esigenze della famiglia.
Le possibili aree critiche sono dunque tante, ma altrettanti sono i possibili percorsi di aiuto da attivare per affrontare le difficoltà e riattivare le risorse presenti nel genitore e nel contesto di appartenenza.
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La mediazione familiare è un intervento professionale di cui può usufruire la coppia separata o in via di separazione, qualora espliciti il bisogno di un tempo e di uno spazio appositi per pensare alla riorganizzazione familiare. Durante il percorso, i partner sono incoraggiati e guidati dal mediatore -terzo neutrale- ad elaborare gli accordi che meglio soddisfino i bisogni di tutti i membri della famiglia, con particolare riguardo all’interesse dei figli. L’obiettivo dell’intervento è dunque molto concreto: la messa a punto di un progetto di riorganizzazione delle relazioni genitoriali e degli aspetti materiali dopo la separazione o il divorzio. Gli accordi presi in sede di mediazione dovranno poi essere presentati al giudice per la ratifica ufficiale necessaria.
La Mediazione Familiare si propone quindi come una nuova e specifica risorsa volta a sostenere i genitori in conflitto durante la fase della separazione e del divorzio. Non a caso, nasce e si sviluppa in un contesto storico-sociale nel quale la co-genitorialità rappresenta un ideale da raggiungere, e la giurisprudenza (legge 54/2006) stabilisce l’affido condiviso come modalità elettiva di affidamento, dando al giudice il compito di valutarla prioritariamente.
Relativamente agli aspetti relazionali, i temi più frequentemente discussi sono:
l’affidamento dei figli, l’analisi dei bisogni di genitori e figli, la continuità genitoriale, il calendario delle visite del genitore non affidatario, le vacanze, la regolazione dei tempi e dei modi di frequentazione tra i figli e i componenti delle famiglie d’origine, le scelte educative, la comunicazione della separazione ai figli, la comunicazione tra i genitori, la relazione con gli eventuali nuovi compagni dei genitori, problematiche legate alla famiglia ricostituita, ecc….
Rispetto alle questioni economiche, invece, risultano oggetto di negoziazione tematiche quali:
l’assunzione degli impegni economici per i figli, la determinazione dell’assegno di mantenimento a favore del partner, l’assegnazione della casa coniugale, la divisione dei beni comuni, ecc….
E’ importante sottolineare che, in ogni caso, è la coppia che sceglie le problematiche da negoziare e gli accordi. In altre parole, il mediatore è responsabile del processo che dirige, ma non dei suoi contenuti, in quanto l’obiettivo più importante è che i due ex-coniugi si riapproprino delle proprie competenze genitoriali e decisionali, senza deleghe. Solo così gli accordi presi avranno la possibilità di resistere alla prova del tempo, in quanto realmente condivisi. Troppe, e troppo dolorose per tutti gli attori coinvolti, le storie di separazioni giudiziali, o consensuali che – poggiando su una conflittualità sottovalutata- non reggono la prova del tempo e il confronto con la realtà.
Vorrei invitare a riflettere sui vantaggi che, invece, possono derivare dal seguire un percorso di mediazione familiare. Innanzitutto a livello individuale:
1. maggior stima di sé e dell'altro
2. espressione delle emozioni ed elaborazione del lutto della separazione
3. ridefinizione della propria identità personale
4. analisi delle conseguenze personali derivanti dalla separazione.
Inoltre, a livello relazionale:
1. miglioramento delle capacità comunicative al di là del conflitto
2. riconoscimento dei bisogni di genitori e figli
3. continuità genitoriale e responsabilizzazione del reciproco ruolo genitoriale
4. possibilità di elaborare gli accordi autonomamente (senza deleghe all’autorità giudiziaria) e in modo paritario (senza imposizioni del genitore economicamente o emotivamente più forte).
Infine c’è l’importante e inestimabile vantaggio di vedere tempi e costi (economici ed emotivi) ridotti rispetto alle lunghe e dolorose controversie giudiziarie.
Inoltre, una mediazione ben riuscita svolge anche una funzione preventiva rispetto a future conflittualità, in quanto si propone come luogo di acquisizione, potenziamento e sperimentazione delle capacità negoziali della coppia: quando emergeranno esigenze e circostanze diverse da quelle iniziali (il che è inevitabile, dato che anche il ciclo di vita della famiglia separata va avanti), i due ex-partner saranno in grado di trovare nuove soluzioni autonomamente, con flessibilità.
Un’ultima riflessione riguarda la tangenzialità della mediazione familiare rispetto ad altri tipi di intervento, da cui peraltro si distingue per una serie di importanti aspetti. In particolare, la mediazione
1) non è una terapia
in quanto è centrata sul presente e sul futuro piuttosto che sul passato, sebbene utilizzi alcune competenze e strategie proprie del setting clinico. Inoltre, è un intervento molto strutturato, circoscritto nel tempo (in genere si articola in 8-10 sedute) e con obiettivi pre-definiti (il raggiungimento di accordi specifici, elencati nel “contratto di mediazione” sottoscritto dal mediatore e dai due partner prima di aprire la fase negoziale).
2) non è una consulenza tecnica
in quanto non si pone l’obiettivo di fornire al giudice informazioni sui rapporti esistenti tra il minore e i genitori, né di definire quale sia il migliore genitore affidatario, per cui non produce diagnosi sulle figure genitoriali, né di tipo psichiatrico, né psicopatologico, né relazionale. In altre parole, manca nella mediazione l’aspetto valutativo-diagnostico;
3) non è una consulenza psicologica, né legale
in quanto il mediatore non elargisce consigli, bensì stimola e guida i due partner alla ricerca di opzioni e soluzioni adeguate.
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“La separazione non è tanto un’opera e un lavoro individuale,
quanto piuttosto un’impresa di coppia.
Come insieme le persone si sono legate,
così insieme hanno il compito di separarsi” (V. Cigoli)
Genitori e insegnanti si trovano sempre più spesso alle prese con bambini “difficili”. In quest’occasione penso, in particolare, a quelli che esibiscono un comportamento oppositivo-provocatorio, che può iniziare a presentarsi già dai 3 anni ma che diventa in genere più evidente e “problematico” con l’ingresso a scuola, quando aumentano cioè le richieste di adattamento alle regole.
Questi bambini:
- litigano frequentemente con i pari
- sfidano richieste e limiti posti dagli adulti
- sono collerici, accusano gli altri se rimproverati, mostrano rancore e offendono
In classe hanno una gran maestria nel fare andare a monte qualsiasi tipo di attività, anche se ben organizzata: scatenano risate generali, innervosiscono i compagni, assumono un atteggiamento di passivo rifiuto o di sfida aperta nei confronti degli insegnati. Inoltre, volendo sempre stare al centro dell’attenzione, hanno difficoltà anche nel contesto ludico: faticano nella collaborazione di squadra e nel rispettare l’alternanza dei turni.
Se la modalità comportamentale ostile si presenta in modo ricorrente e per almeno 6 mesi la si può definire come un vero e proprio disturbo. In ogni caso, anche di fronte a una forma “non clinica”, le questioni che si presentano all’adulto sono le stesse: come estinguere o far diminuire i comportamenti problematici che, come facilmente immaginabile, producono una compromissione del funzionamento scolastico e sociale e, quindi, anche problemi di autostima nel bambino? In altre parole: cosa fare?
E’ evidente che prendersene cura è molto difficile: sono causa di stanchezza, di scoraggiamento e di frustrazione per chiunque cerchi di instaurare con loro un rapporto.
Eppure genitori e insegnanti hanno degli strumenti a cui ricorrere, esistono delle STRATEGIE!
Partiamo da cosa non fare, ossia da alcuni “errori educativi” comuni, da evitare perché possono facilitare l’insorgenza o il mantenimento di condotte oppositivo-provocatorie:
- permissivismo: la mancanza di regole definite impedisce al bambino di capire quali saranno le risposte dell’adulto alle sue azioni;
- incoerenza: alternare punizioni e ricompense senza una ragione chiara, lasciandosi condizionare dal proprio stato d’animo (piuttosto che dall’oggettivo comportamento del bambino) lo disorienta;
- iperprotezione: il controllo genitoriale eccessivo ostacola la crescita socio-cognitiva del bambino che, insicuro, può reagire con atteggiamenti di ribellione e sfida dell’autorità adulta;
- uso eccessivo delle punizioni: ponendosi come modello d’apprendimento, la punizione rafforza la tendenza del bambino a risolvere i conflitti e imporre la propria volontà attraverso l’aggressività.
E ora COSA FARE:
- concordare e far rispettare poche regole chiare che tutti dovranno osservare in casa o a scuola, evitando la forma negativa (es.: “parlare a voce bassa” invece di “non gridare”);
- preferire i premi (per i comportamenti positivi, anche piccoli, che conducono alla condotta desiderata) alle punizioni e darli in breve tempo, altrimenti l’effetto comportamentale svanisce;
- scegliere le punizioni (comunque mai fisiche) solo per comportamenti molto gravi (esplicito danno verbale o fisico agli altri);
- preferire sempre la perdita di un privilegio (es. uscire o usare il pc) alla punizione (es. fare qualcosa di spiacevole);
- ignorare le “esibizioni” del bambino, ossia rimuovere il rinforzo derivante dall’attenzione degli “spettatori”;
- spiegare al bambino le motivazioni che rendono inadeguata la sua condotta, senza formulare giudizi (per non gravare sulla sua già bassa autostima) e suggerire modalità alternative indicandone i vantaggi;
- individuare e agire sugli antecedenti del comportamento problematico (attenuare o modificare l’esposizione alle situazioni che normalmente conducono a comportamenti oppositivi).
Insomma, in sintesi, ogni comunicazione (regole, comandi, rimproveri) deve essere data nel modo più possibile diretto, chiaro e semplice, senza formulare giudizi sulla persona (per es. “avevamo stabilito questa regola, tu l’hai infranta, quindi, come avevamo stabilito devi rinunciare a questo” invece di “sei stato cattivo, ora niente tv!”; oppure “bravo, hai apparecchiato la tavola senza fartelo ripetere due volte, ti meriti un premio”, invece di “bravo, oggi ti sei comportato bene”). Inoltre, è possibile pensare di strutturare un programma a punti, guadagnati e persi in funzione di premi e punizioni. In quest’ultimo caso, però, è particolarmente importante che l’adulto assicuri al bambino la massima coerenza e impegno nel monitorarne il comportamento.
Questi “terribili” bambini hanno insomma bisogno di limiti chiari entro cui muoversi, di sperimentare che possono essere gratificati e ricevere riconoscimento (affettivo e sociale) quando agiscono comportamenti positivi e di aggregazione. Hanno cioè bisogno di aumentare la propria autostima attraverso la relazione con l’altro e la costruzione di legami duraturi su cui far affidamento (invece di distruggerli). In questo percorso gli adulti hanno un ruolo fondamentale.
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Genitori e insegnanti si trovano spesso in difficoltà quando hanno a che fare con bambini oppositivi, che non rispettano le regole, che fanno confusione o che adottano comportamenti apertamente problematici.
Le reazioni più comuni e, ahimè, generalmente anche poco efficaci, sono:
- sgridare;
- fare le prediche;
- minacciare (spesso senza poi far seguire i fatti alle parole);
- punire.
In queste circostanze - come molti ben sapranno per via della propria esperienza diretta - circolano emozioni di rabbia e frustrazione sia nell’adulto che nel bambino, presi in una sorta di fallimentare braccio di ferro per il controllo della situazione.
E’ opportuno, proprio a tal proposito, porsi una domanda: perché i bambini “non si comportano bene”?
Una prima considerazione è che il desiderio di compiacere l’adulto conformandosi ai suoi desideri deve spesso fare i conti con la spinta verso l’autonomia: i bambini vogliono avere la sensazione di poter controllare la situazione!
Inoltre, diciamo la verità: comportarsi bene in genere richiede più impegno che comportarsi male! Pulire e mettere in ordine una stanza non è divertente come fare confusione, mettersi silenziosamente in fila per uscire dalla classe è più faticoso che muoversi disordinatamente chiacchierando con i compagni.
Risponde lo psicologo: come rendere efficace premi e punizioni
Proprio per questi motivi, come ormai ampiamente condiviso dagli esperti del settore, sappiamo che: se si vogliono modificare specifici comportamenti è più efficace ricorrere a strategie che si basano su premi piuttosto che su punizioni!
I bambini sono infatti molto più motivati a fare qualcosa se così facendo ottengono un risultato positivo: “controllano” in tal modo la situazione attraverso il proprio comportamento e hanno una gratificazione per la fatica impiegata.
Le punizioni (date in risposta al non aver fatto quanto atteso) vanno invece usate solo in caso di necessità perché, sebbene possano agire da deterrente, non è escluso che inneschino dei comportamenti problematici, dettati dal risentimento e dalla frustrazione. Inoltre non fanno migliorare l’autostima del bambino. E’ comunque sempre auspicabile che coincidano con perdite di privilegi (es.: divieto di vedere la tv la sera), piuttosto che con l’obbligo a fare cose indesiderate (es: operazioni di aritmetica supplementari).
Inoltre, per quanto riguarda i premi, c’è da evidenziare che:
- forniscono ai bambini un incentivo temporaneo a provare nuove modalità di comportamento;
- possono essere concordati con il bambino, dandogli così l’attenzione e il “controllo” di cui ha bisogno;
- possono essere beni materiali, ma anche attività (per esempio tempo di gioco esclusivo con mamma o papà o con i compagni di classe);
- dovrebbero essere cose attraenti ma piccole (sebbene commisurate allo sforzo richiesto al bambino).
I programmi di gratificazione suggeriti dallo psicologo
Un modo per sfruttare il “potere” dei premi è quello di inserirli all’interno di un vero e proprio programma di gratificazione, da creare “ad hoc” per il bambino (o gruppo classe) che presenti particolari comportamenti problematici: tenendo conto di variabili quali temperamento, età, interessi e contesto, si dovrà pensare in modo creativo a un programma che motivi il bambino facendogli sentire che quello è il “suo” programma (di cui si terrà traccia attraverso opportuni tabelloni o simili).
Il primo passo, però, è decidere esattamente quali comportamenti modificare (quelli cioè che si verificano “ogni volta che”, creando disagio, confusione, conflittualità), scomponendo eventualmente il comportamento problema in componenti più piccole e partendo quindi da quelle più semplici. Se, per esempio, il comportamento che si vuole modificare è che il bambino lasci in ordine la propria stanza prima di andare a cena, evitando i continui richiami della mamma, bisognerà individuare alcune azioni specifiche (meglio non più di un paio) che dovrà compiere (es.: rimettere tutti i giochi nelle relative scatole, in massimo 5 minuti). Dovrà poi essere chiaramente stabilito anche il premio, le sue caratteristiche e le condizioni per ottenerlo.
Per utilizzare efficacemente dei programmi di gratificazione bisogna essere:
- positivi
lodare (in modo credibile, dunque non sproporzionato) i comportamenti positivi, comunicare fiducia al bambino rispetto alle sue capacità di comportarsi adeguatamente, premiarlo sempre quando ciò accade.
- coerenti
rispettare sempre quanto concordato nel programma, in altre parole dimostrare al bambino che “si fa sul serio”
- realistici
gli obiettivi definiti devono essere realistici e raggiungibili per il bambino che, altrimenti, perderà la motivazione.
Questo tipo di intervento è generalmente efficace per bambini tra i 3 e i 10 anni e può essere utilmente applicato per comportamenti quali: conflittualità tra fratelli, difficoltà a finire i compiti, comportamento inadeguato a tavola, etc.
Un particolare tipo è il sistema a punti strutturato, di cui parlerò in un successivo contributo.
Invitandovi a cambiare ottica, dando cioè più spazio ai rinforzi positivi e meno a rimproveri e punizioni, vi lascio ora sperimentare i cosiddetti “vantaggi invisibili” che ciò comporta:
- i bambini aumentano la propria autostima
- l’adulto viene percepito come persona equa, chiara e affidabile
- le interazioni con adulto-bambino diventano più piacevoli
Dunque, buon “gratificante” lavoro a tutti!
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Uno dei contesti in cui il contributo dello psicologo è sempre più necessario e prezioso è indubbiamente la SCUOLA: luogo affettivo e sociale in cui i ragazzi crescono e vivono oltre che “imparare” e in cui il loro disagio può quindi prendere forma e spazio, ma anche sistema con le proprie regole, obiettivi e organizzazione al cui interno devono trovare collocazione - alla ricerca di un sano e complesso equilibrio - i diversi membri di cui è composta e che le gravitano attorno (alunni, docenti, dirigenti, personale ata, genitori, etc.), nonché istituzione profondamente colpita da anni di politiche disattente.
I possibili livelli di INTERVENTO sono molteplici:
- individuale (sportelli di ascolto rivolti ad alunni, insegnanti, genitori);
- gruppo classe (laboratori espressivi, progetti di alfabetizzazione emotiva, integrazione, prevenzione al bullismo, condotte adolescenziali a rischio, etc.);
- corpo docente (corsi di formazione su comunicazione efficace, didattica inclusiva, psicopedagogia, disturbi dello sviluppo, BES, prevenzione burn-out etc.);
- gruppo genitori (corsi di formazione su DSA, disturbi dello sviluppo, etc.);
- sistemico (progetti multi-livello che prevedono cioè un intervento indirizzato a diversi livelli del sistema-scuola, con un focus sulla relazione tra genitori, insegnanti e alunni).
Se pensiamo al disagio presente negli alunni, l’opportunità di intervento a scuola è legata a diversi fattori:
- innanzitutto c’è un’emergenza importante per quanto riguarda l’incidenza e la pericolosità delle condotte patologiche. Per dare un’idea: l’anoressia-bulimia colpisce circa 200mila ragazze ed è la prima causa di morte nelle adolescenti tra i 12 e i 25 anni, gli incidenti stradali la seconda e gli «agiti autolesivi» la terza (dati Istat); il 16% degli undicenni consuma abitualmente alcol; aumentano gli atti di bullismo a scuola, coinvolgendo un adolescente su cinque (ricerca svolta nell'ambito del progetto comunitario E-Abc Antibullying Campaign).
- inoltre, molte condotte patologiche e disagi presenti in bambini e ragazzi, nonché gli stessi disturbi dello sviluppo, hanno una forte matrice relazionale e contestuale, per cui è importantissimo agire nella scuola in cui si manifestano e alimentano (e a volte insorgono).
Esiste però anche un sempre più forte disagio degli insegnanti, a volte schiacciati e scoraggiati dalla crescente burocratizzazione del loro ruolo e dalla mancanza di investimenti e riconoscimento sociale, spiazzati dal venir meno del patto di fiducia con le famiglie, in difficoltà nella gestione di classi e alunni “nuovi”, sempre più “interattivi” o portatori di Bisogno Educativi Speciali cui far fronte in modo competente. Insomma, le sfide per gli insegnanti di oggi sono numerose e il possibile contributo di uno psicologo prezioso per:
- trasformare le spinte oppositive che si generano più o meno consapevolmente (sotto forma di insoddisfazione, passività, atteggiamento critico e distruttivo, creazione di sottogruppi e coalizioni, etc.) attraverso la promozione di senso di appartenenza e collaborazione tra colleghi;
- allenare le competenze relazionali trasversali (tecniche di comunicazione efficace da “spendere” nella relazione con colleghi, dirigente, alunni, genitori, etc.);
- fornire strumenti di intervento (tecniche di didattica inclusiva, pedagogia speciale per DSA, etc.) e lettura del contesto e del disagio che diano un senso di autoefficacia agli insegnanti.
C’è anche un disagio dei genitori, nella gestione delle problematiche dei figli e nel rapporto con la scuola, spesso eccessivamente delegata del ruolo educativo e poi attaccata.
Personalmente, in virtù di ciò che vedo quando guardo il mondo della scuola e del tipo di richieste che mi giungono, credo che i progetti multi-livello siano i più efficaci, perché in grado di rispondere alla complessità del sistema, mettendone in relazione i “pezzi”: i genitori devono sì fare gruppo e conoscere più da vicino le problematiche dei figli, ma anche rapportarsi adeguatamente con la scuola, fare squadra con gli insegnanti per proporsi in termini coerenti e affidabili ai ragazzi; gli insegnanti dal canto loro, oltre a superare i sottogruppi tra colleghi e trovare strategie efficaci di gestione della classe, devono riuscire ad aprire una comunicazione più efficace con le famiglie; infine i ragazzi devono trovare uno spazio di crescita e sperimentazione di sé e del gruppo adeguato, in cui le differenze possano venire accolte, sentendo di avere a che fare con adulti affidabili, attenti e partecipi piuttosto che spaventati e difensivamente autoritari. Agire solo su un livello o una parte del sistema è come prendere un antinfiammatorio per un dolore articolare: il sintomo probabilmente si allevierà o passerà del tutto, ma se la sua origine è legata anche a qualcosa di meno localizzato e più sistemico (es.: a una postura scorretta e a un uso insufficiente della muscolatura addominale) è probabile che senza un adeguato allenamento a diversi livelli il problema ricomparirà, magari in un altro punto…
Purtroppo, a fronte di un bisogno crescente dello psicologo a scuola, la sua presenza è lasciata per lo più alla sensibilità e disponibilità dei dirigenti scolastici (che possono attivarsi per finanziarne progetti e iniziative con i fondi per l’autonomia o partecipando a qualche bando regionale, europeo, etc.): in altre parole la figura dello Psicologo Scolastico – diversamente da altri Paesi – in Italia non è prevista come obbligatoria e questo fa sì che la sua presenza sia spesso spot e quindi meno efficace, oppure legata a un’urgenza. E’ facile che in questi casi ci sia una totale “delega all’esperto”, chiamato per risolvere (quasi miracolosamente!) specifiche problematiche: lo psicologo deve analizzare e trasformare tale richiesta per far uscire i committenti (docenti, dirigenti, genitori) dalla posizione passiva in cui si trovano. In altre parole, un cambiamento è possibile solo se c’è una reale disponibilità a mettersi in moto, riprendere potere e responsabilità, rivedere i propri modelli organizzativi e comunicativi lasciandosi guidare dall’”esperto”, il cui ruolo è quello di catalizzatore e non di attore protagonista.
Quando ciò avviene il processo di crescita che si innesca è notevole: ricordo, per esempio, lo stupore e il turbamento di un insegnante che, dopo un role-playing in cui vestiva i panni di un’alunna, riportò forti emozioni di imbarazzo, insicurezza e rabbia “sorprendentemente” vissute durante la simulazione di un’interrogazione difficile. A volte per guardare le cose da un’altra prospettiva (e sentirne quindi poi le emozioni, comprenderne i comportamenti che ne derivano) è necessario cambiare concretamente posizione…per poi tornare alla propria.
Lo psicologo, tra le tante cose, può aiutare a fare questo.
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Altro...
Quali sono le “regole del gioco” in terapia? Chi si rivolge a me, in modo più o meno esplicito, mi pone quasi sempre questa domanda. Effettivamente, tra sentito dire ed elementi estratti da situazioni terapeutiche narrate nei libri o rappresentate sul piccolo e grande schermo, ci si può confondere…Vorrei tentare di dare qui un orientamento, utilizzando come termine di confronto proprio quanto proposto da una serie tv: la versione italiana di “In Treatment”, incentrata sulle vicende dello psicoterapeuta Giovanni Mari.
Due parole sulla serie, per chi non la conoscesse: si tratta di un remake della versione statunitense della HBO In Treatment, a sua volta tratta dal format israeliano “BeTipul” e ha come fulcro narrativo le sedute del dottor Giovanni Mari (interpretato dal bravissimo Sergio Castellitto). Il terapeuta riceve nel suo studio pazienti con diverse problematiche dal lunedì al giovedì e la telecamera sembra semplicemente “documentare” il lavoro terapeutico (tanto che ogni puntata corrisponde a una seduta). Si ha l’impressione, insomma, di assistere dall’interno al fluire dell’incontro. Il venerdì è invece il Dr. Mari a recarsi presso lo studio di una collega, Anna, per la supervisione, alla ricerca di un aiuto per comprendere e maneggiare al meglio le difficoltà incontrate nel lavoro con alcuni pazienti (con un focus particolare sulle connessioni esistenti tra queste difficoltà e gli intrecci della sua vita privata e familiare).
Quanto di ciò che viene proposto rispetto al modo di lavorare in terapia è “realistico”? Ossia il setting presentato è “ortodosso”, corrisponde a ciò che ci si può aspettare di trovare in una terapia vera e propria?
In realtà, non esiste una definizione unica o ufficiale delle “regole del gioco" terapeutico perché diversi sono gli orientamenti teorici di riferimento e i significati che di conseguenza possono essere attribuiti a una serie di variabili e comportamenti.
Ma andiamo per ordine…
TEMPO
Quanto dura una seduta?
I colloqui tenuti dal Dr.Mari in “InTreatment” durano circa 25-30 min, ma è facilmente comprensibile come questa deformazione possa essere legate alle esigenze del format televisivo: difatti, sebbene ci sano differenze da terapeuta a terapeuta (soprattutto in virtù dell’approccio teorico di riferimento), nella realtà ogni seduta dura circa un’ora. Per quanto riguarda il mio modo di lavorare, per esempio, gli incontri individuali hanno una durata di 60 min, mentre quelli di coppia/familiari 75 min.
A tale proposito, ritengo che il fatto che in “In Treatment” il colloquio è praticamente condensato in metà tempo possa spiegare, in parte, anche il ritmo sostenuto e l’intensità degli scambi tra paziente e terapeuta: in ogni seduta in un certo senso “accadono” e vengono “restituite” al paziente (attraverso interpretazioni o attribuzioni di senso date ad azioni, parole, silenzi e dinamiche ridondanti) molte più cose di quanto non avvenga in media in un percorso terapeutico vero e proprio, che necessita in genere di un tempo di elaborazione maggiore.
Orari e frequenza degli incontri
Ciascun paziente del Dr. Mari ha la sua seduta una volta a settimana, in un giorno e orario fissi (tanto che ogni puntata inizia con questa informazione che fa da titolo, es: “Irene, lunedì ore 8:00”). Questo elemento corrisponde abbastanza bene alla prassi, sebbene anche qui i modelli teorici di riferimento possono introdurre delle varianti (nell’approccio psicoanalitico classico, oramai piuttosto desueto, per esempio, la frequenza è di addirittura 3 volte a settimana). Io lavoro con cadenza settimanale, nel caso di terapie individuali, e quindicinale quando si tratta di coppie o famiglie. E’ molto importante la regolarità degli incontri, sia in termini di frequenza che orario. Questo elemento del setting produce “reazioni” diverse nelle persone, sintetizzabili in due macro-categorie: alcune riescono ad organizzarsi adeguatamente e a “tutelare” sufficientemente il proprio spazio di cura da impegni, imprevisti e intrusioni di vario genere, sono assai contente e sollevate nel sentire che esiste uno spazio stabile e tutto per sé nell’agenda e nella mente del terapeuta, dunque una “luogo” pronto ad accoglierle; altre persone, invece, possono trovare molto faticoso (per motivi pratici e non solo…) riservare a se stesse uno spazio fisso, il che si traduce in frequenti proposte di spostamento delle sedute o disdette, fine ad arrivare alle situazioni in cui c’è come la fantasia che lo psicologo/terapeuta debba rendersi disponibile “a richiesta” piuttosto che collocarsi dentro a un processo e una relazione di scambio in cui ambo le parti si impegnano garantendo la propria presenza, con un importante investimento emotivo e di tempo/denaro. In linea di massima posso dire che, sebbene la flessibilità sia una risorsa da utilizzare in alcune occasioni (ritengo per esempio che non si possa proporre in modo rigido un orario fisso a una persona che lavora su turni, o pretendere che un paziente non partecipi a un’importante riunione extra di lavoro perché si sovrappone all’orario della seduta, se fissata con un minimo di anticipo), la regolarità di frequenza e orario delle sedute è davvero parte fondamentale del processo terapeutico. E’ cioè importante che la persona, con l’aiuto del professionista, possa riuscire a conquistare, tutelare e mantenere il proprio spazio di cura.
SPAZIO
Che aspetto e caratteristiche hanno lo studio e la stanza di terapia?
Il Dr. Mari svolge le sue terapie in uno studio che si trova all’interno della casa in cui vive. Sebbene sia dotato di doppia entrata (come spiega a più di un paziente incuriosito), l’ambiente sembra essere molto connotato in termini domestici, si ha cioè proprio l’impressione di trovarsi in un salotto piuttosto che in una stanza di terapia. Questa scelta non è effettivamente così infrequente nella prassi, capita cioè che dei professionisti (per lo più per ragioni di tipo pratico) decidano di adibire una parte della propria abitazione a studio. La cosa che mi sembra in un certo senso opinabile non è la scelta in sé, bensì - nel caso di quanto proposto da “In Treatment” – il rischio di un’eccessiva labilità dei confini casa-studio (per intenderci: lo studio-salotto è comunicante con la cucina di casa e in un paio di occasioni il paziente vi accede, entrando appunto in uno spazio diverso da quello “sacro” della terapia...l’intimità e quotidianità del terapeuta è a portata di mano facendo quasi scivolare la relazione fuori contesto).
Nella realtà, al di là della collocazione, le stanze di terapia possono avere aspetti molto diversi tra loro, a seconda dei gusti personali del terapeuta, del suo approccio, nonché dell’utenza (adulti / bambini; singoli/coppie/famiglie): se nello studio di uno psicanalista classico non mancherà il noto lettino, negli altri è assai comune trovare un piccolo divano (che può essere utilizzato sia per incontri individuali che di coppia) e delle piccole poltroncine o sedie che si prestano ad accogliere con flessibilità persone e situazioni diverse, oppure un piccolo tavolino e tappeto con l’occorrente per i più piccoli. Insomma, difficile stabilire regole in tema di spazio e arredamento. Personalmente preferisco uno stile minimalista e semplice che lasci ampio spazio alle persone e alla relazione.
Inoltre, salvo particolare esigenze di tipo pratico, per tutelare la privacy dei pazienti e per concedermi un tempo di recupero e concentrazione, prevedo una piccola pausa tra un appuntamento e l’altro.
RELAZIONE
Ci si dà del “Tu” o del “lei”?
Questa è un’altra frequente domanda che mi viene posta, o in alcuni casi direttamente “agita”: io di regola dò del “lei” (eccezion fatta per gli adolescenti) ed è capitato che qualcuno faticasse ad usarlo e iniziasse a darmi del “tu”, oppure a chiedermi il “favore” di darglielo perché in imbarazzo diversamente. Senza entrare in merito alla valutazione clinica, dico solo che è importante per me comprendere e condividere con la persona il senso di quell’imbarazzo o fatica per poi decidere se “uscire” dalla regola base del “lei” (che nella nostra cultura più facilmente segnala e definisce una relazione in termini professionali, aiutando a distinguerla da quelle familiari e amicali).
In “In treatment” mi sembra che la linea sia più o meno la stessa: il Dr. Mari dà del “tu” ai ragazzini che ha in cura e a una ragazza di 23 anni, dopo sua esplicita richiesta, mentre dà del “lei” a tutti gli altri. I pazienti danno del “lei” al terapeuta.
Quali confini deve mantenere il terapeuta nella sua azione?
Questa domanda si può declinare in infinite e a volte parecchio complesse questioni.
Ne prendo in considerazione qui un aspetto: il terapeuta deve necessariamente confinare la sua azione all’interno dello studio e dell’ora della seduta?
Direi che di base assolutamente sì (più o meno per lo stesso motivo per cui è importante la regolarità degli incontri), ma è a volte assai utile uscire da questa regola. Il Dr. Mari, per esempio, decide di accompagnare lui stesso una paziente in ospedale per iniziare la chemioterapia. Non prende però questa decisione guidato dall’impulso, bensì da una precisa valutazione clinica che lo incoraggia ad assumere il “rischio” di questa trasgressione del setting.
Nella stessa ottica è possibile pensare, per esempio, che fare una telefonata al paziente o offrirgli disponibilità a riceverla, in un momento particolarmente delicato, è possibile e sensato. La regola di base è però un’altra: lo scambio terapeutico avviene in seduta, attendere quel momento e riuscire a portare le proprie emozioni e questioni in quello spazio è importante.
Un’altra eccezione, è rappresentata dalla terapia a domicilio: in questo caso il professionista, in base a una precisa e attenta valutazione clinica, decide che è opportuno e utile spostare l’intervento a casa del paziente. Non mi dilungo qui sugli aspetti tecnici e sulle implicazioni in termini di setting, rimandando ad altri e specifici articoli sugli aspetti della psicoterapia a domicilio a Roma.
SUPERVISIONE
Ogni terapeuta fa una sua terapia o va in supervisione?
In realtà le due cose (terapia e supervisione) in genere non coincidono, ma vengono confuse dalla gente comune: spesso i pazienti mi chiedono, incuriositi, se è vero che anche i terapeuti (difficilmente la domanda è diretta a me in modo esplicito…) vanno in terapia o se non abbiano bisogno di “scaricarsi” dato che ascoltano per tanto tempo i problemi degli altri!
Diciamo che in genere ogni terapeuta ha fatto o ha in corso una terapia personale: alcune scuole di specializzazione lo prevedono come fase obbligatoria, mentre altre no, ma è comunque estremamente difficile che un terapeuta non attraversi questo passaggio durante la sua formazione. Ciò gli consente di sperimentare sulla propria pelle - nel ruolo di paziente - vissuti, emozioni e dinamiche attivati dalla relazione terapeutica, nonché conoscersi meglio così da affinare in un certo senso il proprio "strumento di lavoro". Cosa diversa è la supervisione (non obbligatoria), ossia un percorso fatto di colloqui (individuali o in gruppo con altri colleghi) in cui il terapeuta condivide con un collega più esperto alcuni casi clinici, alla ricerca di un aiuto per meglio comprendere e risolvere eventuali situazioni di impasse con i propri pazienti. E’ il caso proposto da “In Treatment” in cui le puntate relative al venerdì di supervisione, a mio avviso, hanno il compito e il merito di far comprendere meglio al telespettatore la complessità del lavoro terapeutico (ricco di intrecci e continui rimandi con la propria storia personale) nonché l’umanità e fallibilità del terapeuta che, nei fatti, si trova a compiere diversi “errori” nel suo lavoro, fino ad attraversare una vera e propria crisi professionale.
Faccio un esempio. A proposito della scelta del Dr. Mari di avere lo studio dentro casa, Anna (suo supervisore) propone al collega una considerazione: sembra che il terapeuta accogliendo all’interno del proprio salotto i pazienti stia esprimendo, in un momento della propria vita personale difficile e di profonda solitudine (a seguito di una dolorosa separazione coniugale) il bisogno di rivitalizzare la propria sfera affettiva e sociale.
Dunque, concludendo, direi che “In Treatment” non rispecchia fedelmente la realtà della relazione terapeutica in termini di setting, ma ne dà una rappresentazione accettabile, utile ad orientarsi. Mi sembra che questo sia un buon risultato per una serie tv, per altro ottimamente recitata e accattivante: ho personalmente seguito con estrema curiosità e piacere le diverse storie, trovando anche degli interessanti spunti clinici, nonché raccolto l’entusiasmo di parecchi telespettatori non terapeuti, incuriositi dal (a volte) poco conosciuto mondo “psy”.
Per cui direi che In Treatment non docet, però piace!
Lo studio della Psicologa Laura Dominijanni a Roma è aperto dal Lunedi' al Sabato. Prenota un appuntamento usando l'apposita sezione Contatti
A settembre se ne fa un gran parlare, del resto è esperienza piuttosto comune affrontarla: è la temuta “crisi da rientro”, un mix di emozioni e pensieri negativi, spesso accompagnati da veri e propri sintomi fisici di intensità variabile che rendono faticosa la ripresa della routine dopo la pausa estiva.
La psicosomatica espone in questo caso tutta la sua merce migliore: mal di testa, problemi digestivi, dolori muscolari, insonnia, astenia… Inoltre, ci si può sorprendere più nervosi e ansiosi, instabili di umore e avere difficoltà di concentrazione e attenzione. Lo stato emotivo può virare verso la depressione, tanto che alcuni studiosi hanno formulato l’etichetta di “post vacation blues” per definire questa condizione di malessere.
Un disagio piuttosto articolato e importante, dunque, che è stato invece a lungo sottovalutato e disconosciuto. Ultimamente, però, sta assumendo un’identità più chiara e riconosciuta: sembra coinvolgere diverse persone, anche i più giovani, addirittura i ragazzi al rientro a scuola.
Da un punto di vista psicologico, del resto, riprendere i ritmi della quotidianità può avere tante implicazioni e significati. Ci si ritrova nuovamente a contatto con il “dovere”, con le aspettative (altrui e proprie), con gli impegni, spesso immersi in ritmi frenetici e “schemi” dentro cui si può sentire di avere poca libertà di movimento e riposo. Riprende la scuola, il lavoro, la palestra, la gestione quotidiana della casa, il traffico, le corse… Può accadere di non sentirsi capaci o spaventati dal doversi nuovamente confrontare con delle situazioni relazionali difficili (con i colleghi, il capo, i compagni di scuola, gli insegnanti, etc.) o semplicemente all’idea di non riuscire a conciliare il dovere con il piacere e la cura di sè. Il corpo e la psiche allora parlano attraverso i sintomi, segnalano dei bisogni: sembra che cerchino di rallentare la ripresa e di indicare una via per integrare e non perdere per strada quanto di buono esperito durante le vacanze. Quanta sapienza nella nostra unità mente-corpo!
Come prevenire o ridurre la "crisi da rientro"
Vediamo però COME “PREVENIRE”, o comunque ridurre in termini di intensità, questo stato di affaticamento, ansia e depressione che può accompagnare il passaggio dalla pausa estiva alla ripresa:
- Prolungare il più possibile le vacanze evitando di spezzettarle: per ricaricarsi è necessario immergersi in ritmi e contesti nuovi e rilassanti. Ovviamente non è necessario andare fisicamente lontano, ma sì “rompere” gli schemi, come si suol dire “cambiare aria” (anche solo frequentando persone diverse o dedicandosi ad attività piacevoli).
- Rientrare progressivamente: è utile crearsi dei cuscinetti tra le vacanze e la ripresa, darsi del tempo per abituarsi, accelerare i ritmi gradualmente. Non farlo fa sì che sia il corpo poi a parlare e rallentarci attraverso i sintomi!
- Iniziare un eventuale percorso psicologico prima dell’estate: piuttosto che lasciarla tra i “buoni propositi” che incombono sul calendario di settembre, può essere una scelta saggia non rimandare e prendere in mano una situazione di disagio e malessere che ci affatica e/o angoscia. Questo ci alleggerirà e potrà essere di aiuto anche al momento della ripresa della routine, quando la relazione terapeutica sarà già avviata e pronto ad accoglierci.
Gestire la "crisi da rientro" trasformandola in opportunità
Quando la crisi da rientro è attiva, in ogni caso, può metterci di fronte a delle OPPORTUNITA’ da cogliere:
- Coltivare uno stile di vita più sano: la fatica che facciamo a stare nuovamente per tante ore fermi e al chiuso in ufficio, o in mezzo al traffico, ci segnala alcuni nostri reali bisogni a cui in vacanza diamo “spontaneamente” ascolto ma che tendiamo invece poi a soffocare. Possiamo provare ad approfittare dell’esperienza positiva che abbiamo maturato per trasportarla nel quotidiano della routine. Insomma, per dirla con una metafora “non scendere dalla bicicletta finche è in movimento” perché si sa che poi risalirci è più dura e si tende ad accomodarsi su altri mezzi…Duqnue continuiamo a camminare all’aperto e in mezzo alla natura quando possibile, riduciamo l’uso della macchina, facciamo dello sport, mangiamo cibi buoni e sani piuttosto che preconfezionati e precotti, leggiamo un buon libro piuttosto che passare ore alla tv o pc etc. Il nostro corpo-mente ci ringrazierà e si reinserirà nella routine in modo nuovo e meno faticoso.
- Darsi obiettivi raggiungibili e motivanti. Se ciò che la sindrome da rientro segnala è innanzitutto una fatica a confrontarsi con qualcosa che si sente come “troppo” o “ineludibile”, allora sarà utile muoversi verso obiettivi a misura delle proprie energie e soprattutto verso mete realmente desiderate. La ripresa dopo la pausa estiva è il momento migliore per avviare con passione dei progetti personali, o anche per iniziare a dedicarsi a quell’hobby per cui non si è mai trovato il tempo. Spesso durante le vacanze, complice il relax che lascia libera la creatività e aiuta ad entrare maggiormente in contatto con se stessi, emergono i propri desideri più autentici, si hanno degli “insight” in merito a ciò che si vorrebbe fare. Dare seguito a queste spinte, canalizzandole all’interno di obiettivi realistici e realizzabili è un ottimo modo per “portare con sé” l’atmosfera magica delle vacanze, creare un ponte con la routine, integrare dovere e piacere.
- Iniziare un percorso psicoterapeutico: se il malessere che si vive nella fase di rientro alla routine è particolarmente intenso o prolungato probabilmente segnala un bisogno psicologico a cui dare ascolto competente. Ciò che si è lasciato da parte e in stand-by al momento della pausa estiva ha bisogno di essere visto, compreso ed elaborato.
Nella mia esperienza...
Mi accade spesso di ricevere richieste di inizio terapia o sostegno psicologico in questo periodo dell’anno, proprio sulla spinta di questa “crisi” che il rientro produce e ri-attiva, andando a toccare corde personali magari a lungo silenziate. In tal senso, la sindrome da rientro mi sembra un’enorme opportunità, una cassa di risonanza per iniziare ad ascoltarsi e a farsi ascoltare.
In occasione dell’arrivo dell’estate le richieste di aiuto psicologico aumentano, un po' come in prossimità del Natale. Mi ritrovo a fare questa constatazione da anni ormai e vorrei, allora, soffermarmi un po' sull’esplorazione di questo fenomeno, apparentemente poco comprensibile e controintuitivo: come dire, ma è possibile star male proprio quando c’è l’opportunità di rilassarsi, fermarsi un po', prendersi del tempo, divertirsi?! La risposta è: sì, eccome! Ma vediamo perché…Per farlo, però, dobbiamo entrare nel mondo delle ambivalenze, di cui si nutre la nostra vita quotidiana e la nostra psiche, a dispetto dell’affannoso tentativo di mettere ordine in modo coerente a tutte le emozioni che ci abitano.
E’ assolutamente vero che con l’arrivo della stagione estiva aumentano virtualmente le possibilità di godere di aspetti rivitalizzanti, a cui è più difficile dare pari spazio in altri periodi dell’anno: passeggiate, sport e serate all’aria aperta, contatto con la natura, giornate di ferie da dedicare al relax, ai viaggi, alla cura delle relazioni sociali e degli affetti. Dunque in estate possono esserci le condizioni ideali per ricaricarsi e prendersi cura di sé.
E’ però altrettanto vero che, spesso, avviene proprio il contrario: fermandosi emergono crisi e stati emotivi negativi tenuti sotto soglia durante l’anno, per cui tutto si fa tranne che ricaricarsi e prendersi cura di sé! E’ un po' come correre, specie se al di sopra delle proprie possibilità: finché si continua a farlo, nonostante si avverta la fatica, il dolore muscolare non esplode, ma quando ci si ferma il corpo diventa pesante, dolorante…aumenta la capacità di “sentirsi”, si entra in contatto con le proprie fragilità ed emozioni spiacevoli, coperte dalla fatica durante la corsa. In altre parole, la routine degli impegni lavorativi e domestici ci stanca spesso terribilmente, è vero, ma contemporaneamente ci protegge dalla possibilità (che è ovviamente un’opportunità, non solo un rischio!) di ascoltarci. E quando poi arriva l’estate…
Vediamo quali sono le situazioni che (ri)attivano il disagio o malessere psicologico a cui la pausa estiva può fare da cassa di risonanza:
- Difficoltà economiche: nel momento in cui aumenta il desiderio di riposo e svago si percepiscono in modo più forte i limiti posti da una condizione economica precaria o comunque discrepante rispetto alle proprie aspettative e desideri. Può capitare di ritrovarsi o sentirsi costretti a non partire per un viaggio tanto desiderato o di avvertire forte il “gap” con il proprio gruppo di amici, o con i propri obiettivi e progetti di sviluppo professionale, etc. Insomma aumenta il senso di frustrazione che può portare con sé sentimenti di inadeguatezza, rabbia e depressione.
- Difficoltà relazionali: in estate aumentano virtualmente le occasioni di incontro sociale, il che porta a galla eventuali difficoltà presenti nell’area delle relazioni. Ci si trova più esposti e in condizioni meno strutturate. Questa condizione può essere una dura prova per chi soffre di stati ansiosi, fobia sociale, o grande timidezza e “goffaggine” nelle relazioni. Può capitare di ritrovarsi soli, laddove nella routine, invece, ci sono contesti (quali università, lavoro, palestra) che favoriscono l’incontro con i pari fornendo un contesto condiviso facilitante.
- Depressione e altri disturbi psichici: a volte il malessere viene coperto o comunque tenuto a un livello “accettabile” dal lavoro e dall’(iper)attività in cui si è immersi nella routine. Quando poi tutto intorno si ferma e magari diminuiscono le risorse relazionali a disposizione (colleghi e persone care che vanno in vacanza, eventuali percorsi terapeutici, assistenziali o riabilitativi che riducono la propria frequenza), come si suol dire con una nota metafora, i nodi vengono al pettine. L’isolamento in cui ci si ritrova può amplificare vissuti depressivi, pensieri paranoici o ossessivi, angosce. Non è raro, infatti, nella mia esperienza, ricevere richieste di inizio di terapia o di intervento domiciliare connotate da una certa “urgenza” proprio a ridosso della pausa estiva. Ci si sente più esposti e a rischio e ci si attiva, per lo più in cerca di un contenimento, di una relazione che possa cioè svolgere questa funzione.
- Crisi di coppia: se ci sono dei non detti o delle aree delicate nel rapporto di coppia è quasi certo che vengano sollecitate dall’arrivo dell’estate. Decidere la destinazione per le proprie vacanze e come organizzarle chiama in causa tante questioni: bisogna negoziare tenendo conto dei bisogni di tutti i membri della famiglia, muoversi attraverso i vincoli di lealtà che legano i due partners alle proprie famiglie d’origine e agli amici, etc. Inoltre, l’arrivo dell’estate mette la coppia di fronte alla possibilità (e quindi eventuale difficoltà) di dedicarsi un tempo di svago, piacere e cura: un’intimità che può essere un toccasana, a lungo desiderata, oppure…temuta! Ritrovarsi così vicini e lontano dalla routine, se ci sono dei rancori o temi irrisolti, può essere “rischioso”. Non è raro, infatti, che, come si dice con un’espressione scherzosa, le coppie scoppino proprio nel periodo estivo. Inoltre, per quelle separate, l’arrivo delle vacanze spesso riattiva il conflitto sulla gestione dell’affidamento dei figli. Insomma, l’estate non è per la coppia necessariamente sinonimo di relax.
- Familiare malato: per chi si ritrova ad avere un familiare che sta male (per le più disparate ragioni: problemi psichici, Alzheimer, malattie organiche degenerative oppure oncologiche in stato avanzato) o comunque non autosufficiente perché anziano, l’arrivo dell’estate è un grande stress. Bisogna decidere come gestire la situazione, trovare un equilibrio tra istanze diverse, tutte da ascoltare: il bisogno di assistenza e cura del proprio familiare e quello proprio di relax, i vincoli economici, il senso di colpa, il desiderio di presenza e sostegno. Inoltre, come se non fosse già estremamente complesso posizionarsi tra queste diverse spinte ed elementi, spesso si aggiunge la variabile del conflitto familiare: si discute su chi debba sacrificarsi di più o di meno, possono tornare a galla vecchie storie, differenze di trattamento, gelosie, rivendicazioni…
Insomma, l’arrivo della pausa estiva può essere una grande opportunità di ricarica e cura di sé ma, in alcuni casi, anche un periodo estremamente faticoso e delicato. Per chiuderla con una battuta: a volte ci vorrebbe una vacanza per riprendersi dalla vacanza! Volendo, invece, tornare seri: è comprensibile che, in alcune situazioni, ciò che il periodo estivo porta con sè tocchi corde sensibili della salute psichica della persona e, se ciò avviene e la fatica emotiva che si avverte sembra eccessiva, è utile rivolgersi a un professionista della salute mentale.
Un uomo finisce col diventare
ciò che crede di essere.
(M. Gandhi)
A molti sarà capitato di essere “etichettati” come paranoici, ma…cosa significa esattamente?!
Proverò a fare un po' di chiarezza su quali sono le caratteristiche e le dinamiche che sostengono la paranoia, nonché fornire un orientamento per individuare quegli aspetti ed elementi che permettono di distinguere tra un livello lieve e uno che, invece, merita attenzione clinica. Di fatti, molte persone formulano pensieri paranoici, prima o poi, ma ciò non significa necessariamente che abbiano un vero e proprio disturbo.
Ma andiamo con ordine.
COSA SI INTENDE PER PARANOIA
Nel linguaggio quotidiano si definiscono paranoiche quelle persone che tendono ad essere sospettose e a ritenersi facilmente vittima di persecuzioni o inganni, oppure che presentano elevati livelli di ansia e apprensione, intendendo quindi la paranoia come una forma rafforzata di paura o angoscia. Questa “etichetta”, per quanto non scorretta, è estremamente generica e ampia per cui, com’è facile immaginare, può finire per includere diverse situazioni non patologiche. Cosa diversa è, invece, parlare della paranoia da un punto di vista clinico.
Innanzitutto non si tratta di un disturbo d’ansia bensì di un disturbo del pensiero di cui la persona non ha coscienza e che la porta ad elaborare un sistema di credenze incentrate sulla convinzione di essere perseguitato o sottoposto a una minaccia concreta. Ciò può poi tradursi in idee quali: essere spiato, pedinato, preso in giro, vittima di complotti, attentati o avvelenamenti. Ne deriva una tendenza a non fidarsi dell’altro (in quanto percepito come mal intenzionato), ad averne paura, ad essere sospettosi e guardinghi.
Quando non si presenta nella forma di un disturbo delirante vero e proprio, la paranoia riguarda situazioni che possono effettivamente esistere nella vita reale e il comportamento della persona (il cui funzionamento, a parte la sospettosità, non risulta compromesso in modo rilevante) non è particolarmente stravagante o fuori le righe. C’è poi il caso del disturbo paranoide di personalità in cui le ideazioni persecutorie sono meno forti ma tendono a coinvolgere quasi ogni contesto di vita: il mondo è vissuto come ostile e guardato sempre con diffidenza e sospettosità, con conseguente predilezione per uno stile di vita solitario. Pensieri tipici sono: “appena ti rilassi ti fregano”, “non si può mai abbassare la guardia”, “ce l’hanno con me”, “sotto c’è una fregatura, sicuramente”. La persona è quindi solitamente ipervigilante e ipersensibile alle critiche, tende a biasimare gli altri e ad attribuire loro intenzioni malevole.
La dinamica che innesca un circolo vizioso che si autoalimenta è la seguente: la persona, guidata dalla propria sfiducia e sospettosità, assume un atteggiamento ipervigilante (alla ricerca attenta di possibili segnali di minaccia o falsità da cui difendersi, perché ciò che normalmente può essere visto come un evento casuale, per un paranoide/paranoico può essere considerato intenzionale) e agisce in modo cauto e guardingo, apparendo spesso freddo, controllante, eccessivamente permaloso e polemico. Il suo atteggiamento “poco amichevole” promuove e rinforza eventuali comportamenti negativi negli altri (critiche, isolamento, etc.) che vengono poi assunti come “prove” della fondatezza dei propri sospetti. In tal modo il paranoico proietta e attribuisce all’esterno la propria aggressività (che nei fatti attiva), confermandosi così nella posizione di vittima. Quel che accade, quindi, è che, proprio come temuto, finisce per essere poi realmente attaccato, giudicato, isolato, fregato, etc. Questo ovviamente aumenta ancora di più la sua sospettosità e, in alcuni casi, può spingerlo a risposte aggressive di difesa. Il circolo continua così in un rinforzo crescente. Si tratta di una declinazione del noto e studiatissimo meccanismo della profezia che sia autoadempie.
Molto poco di certo, invece, si sa in termini di eziopatogenesi, ossia delle "cause" di questo disturbo. Una ipotesi (P. Fonagy) che ritengo interessante e che condivido è che la persona, durante la propria infanzia, invece di poter contare su una relazione di attaccamento sicura, abbia avuto a che fare con una disorganizzata a danno del processo di "mentalizzazione", ossia del processo di acquisizione della capacità di comprendere adeguatamente gli stati della mente altrui, orientandosi di conseguenza nell'interpretazione dei comportamenti e nelle relazioni interpersonali. In altri termini, il paranoico fatica a sintonizzarsi con l'altro, perchè gli è difficile spostarsi dalla propria posizione e distinguere ciò che è frutto di una propria interpretazione dal mondo esterno. Ecco che tutto diventa incerto e minaccioso. Inoltre, nella storia delle persone che sviluppano pensieri paranoici importanti, si trovano spesso esperienze traumatiche che le hanno effettivamente molto "esposte" e "minacciate", in assenza di adeguati fattori protettivi, ossia risorse (relazionali, cognitive, etc.) in grado di bilanciarne gli effetti negativi.
COSA FARE
Un paio di criteri possono aiutare a capire se il pensiero paranoico è all’interno di un range di “normalità” o se, invece, può essere utile rivolgersi a un esperto.
- Grado di distorsione della realtà: non c’è alcuna (o poca) coerenza tra quanto accade e ciò che viene percepito dalla persona, per via della sua distorsione interpretativa.
- Pervasività: la paranoia intacca, in modo rilevante, diverse aree della vita della persona (affettiva, sociale, lavorativa).
Spesso è un familiare, “vittima” della paranoia del proprio congiunto (il contenuto del pensiero paranoico potrebbe essere, per esempio, un temuto tradimento del partner) a spingere per un consulto. Infatti, non avendo consapevolezza del meccanismo di distorsione che caratterizza il suo pensiero ed essendo estremamente sospettoso, il paranoico raramente chiede aiuto. Ciò può però accadere quando gli “effetti” del sintomo sono fonte di grande disagio: la persona può rivolgersi a un terapeuta per fronteggiare i sentimenti di depressione, tristezza, ansia e angoscia che si associano all’isolamento in cui di fatto si ritrova. In altre parole, la persona non chiede aiuto per liberarsi dalla paranoia (che non riconosce e che di questo si alimenta), bensì per le sue “conseguenze”. E’interessante notare, a tal proposito, come molti presunti casi di mobbing lavorativo possano essere ricondotti a idee persecutorie del mobbizzato o venire “attivati” dai suoi comportamenti difensivi.
La grande sfida della terapia, in questi casi, è riuscire a costruire una relazione percepita dal paziente come sufficientemente sicura e affidabile, ossia far sperimentare alla persona un’esperienza riparatrice, un contesto in cui alleggerirsi della enorme tensione e fatica emotiva che comporta il difendersi costantemente dalle presunte minacce circostanti. E’evidente che non basterà sapere che il terapeuta è tenuto al segreto professionale perché la persona si fidi di lui. Ci vuole tempo e lavoro sulla relazione, affinché la stanza di terapia diventi un “contenitore” in cui portare emozioni e pensieri altrimenti “indicibili”, alla ricerca di un ascolto e di una risignificazione che possano abbassare i livelli di angoscia e fornire nuove lenti per interpretare la (spesso minacciosa) realtà.
Ringrazio per la simpatica vignetta l’amico e disegnatore Paolo Casadonte ;-)
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