Psicologa Roma by

Quando può essere utile un intervento psicologico a domicilio? 

 

Quando può essere utile un intervento psicologico a domicilio? Come si svolge una visita psicologica a domicilio? Quali i servizi attualmente presenti sul territorio?

Oltre a far parte dell'Associazione Inverso a Roma che è focalizzata sulla Psicoterapia a domicilio a Roma e sul cui sito potrete trovare molte informazioni utili, ho trattato i punti sopra nell'intervista condotta da Pier Luigi Stentella per Radio Incontro Terni.

 

Buon ascolto!

https://soundcloud.com/radioincontro-terni/psicologia-a-domicilio-drssa-laura-dominijanni-presidente-associazione-inverso

 

Se pensi di aver bisogno di uno psicologo a domicilio a Roma, ti consiglio di leggere questo articolo "psicologia e psicoterapia a domicilio: quando la richiesta d’aiuto inverte il senso di marcia" o di contattarmi.

 

 

 

 

Quali sono le “regole del gioco” in terapia? Chi si rivolge a me, in modo più o meno esplicito, mi pone quasi sempre questa domanda. Effettivamente, tra sentito dire ed elementi estratti da situazioni terapeutiche narrate nei libri o rappresentate sul piccolo e grande schermo, ci si può confondere…Vorrei tentare di dare qui un orientamento, utilizzando come termine di confronto proprio quanto proposto da una serie tv: la versione italiana di “In Treatment”, incentrata sulle vicende dello psicoterapeuta Giovanni Mari.

Due parole sulla serie, per chi non la conoscesse: si tratta di un remake della versione statunitense della HBO In Treatment, a sua volta tratta dal format israeliano “BeTipul” e ha come fulcro narrativo le sedute del dottor Giovanni Mari (interpretato dal bravissimo Sergio Castellitto). Il terapeuta riceve nel suo studio pazienti con diverse problematiche dal lunedì al giovedì e la telecamera sembra semplicemente “documentare” il lavoro terapeutico (tanto che ogni puntata corrisponde a una seduta). Si ha l’impressione, insomma, di assistere dall’interno al fluire dell’incontro. Il venerdì è invece il Dr. Mari a recarsi presso lo studio di una collega, Anna, per la supervisione, alla ricerca di un aiuto per comprendere e maneggiare al meglio le difficoltà incontrate nel lavoro con alcuni pazienti (con un focus particolare sulle connessioni esistenti tra queste difficoltà e gli intrecci della sua vita privata e familiare).

Quanto di ciò che viene proposto rispetto al modo di lavorare in terapia è “realistico”? Ossia il setting presentato è “ortodosso”, corrisponde a ciò che ci si può aspettare di trovare in una terapia vera e propria?

In realtà, non esiste una definizione unica o ufficiale delle “regole del gioco" terapeutico perché diversi sono gli orientamenti teorici di riferimento e i significati che di conseguenza possono essere attribuiti a una serie di variabili e comportamenti.

Ma andiamo per ordine…

 

TEMPO

Quanto dura una seduta?

I colloqui tenuti dal Dr.Mari in “InTreatment” durano circa 25-30 min, ma è facilmente comprensibile come questa deformazione possa essere legate alle esigenze del format televisivo: difatti, sebbene ci sano differenze da terapeuta a terapeuta (soprattutto in virtù dell’approccio teorico di riferimento), nella realtà ogni seduta dura circa un’ora. Per quanto riguarda il mio modo di lavorare, per esempio, gli incontri individuali hanno una durata di 60 min, mentre quelli di coppia/familiari 75 min.

A tale proposito, ritengo che il fatto che in “In Treatment” il colloquio è praticamente condensato in metà tempo possa spiegare, in parte, anche il ritmo sostenuto e l’intensità degli scambi tra paziente e terapeuta: in ogni seduta in un certo senso “accadono” e vengono “restituite” al paziente (attraverso interpretazioni o attribuzioni di senso date ad azioni, parole, silenzi e dinamiche ridondanti) molte più cose di quanto non avvenga in media in un percorso terapeutico vero e proprio, che necessita in genere di un tempo di elaborazione maggiore.

 

Orari e frequenza degli incontri

Ciascun paziente del Dr. Mari ha la sua seduta una volta a settimana, in un giorno e orario fissi (tanto che ogni puntata inizia con questa informazione che fa da titolo, es: “Irene, lunedì ore 8:00”). Questo elemento corrisponde abbastanza bene alla prassi, sebbene anche qui i modelli teorici di riferimento possono introdurre delle varianti (nell’approccio psicoanalitico classico, oramai piuttosto desueto, per esempio, la frequenza è di addirittura 3 volte a settimana). Io lavoro con cadenza settimanale, nel caso di terapie individuali, e quindicinale quando si tratta di coppie o famiglie. E’ molto importante la regolarità degli incontri, sia in termini di frequenza che orario. Questo elemento del setting produce “reazioni” diverse nelle persone, sintetizzabili in due macro-categorie: alcune riescono ad organizzarsi adeguatamente e a “tutelare” sufficientemente il proprio spazio di cura da impegni, imprevisti e intrusioni di vario genere, sono assai contente e sollevate nel sentire che esiste uno spazio stabile e tutto per sé nell’agenda e nella mente del terapeuta, dunque una “luogo” pronto ad accoglierle; altre persone, invece, possono trovare molto faticoso (per motivi pratici e non solo…) riservare a se stesse uno spazio fisso, il che si traduce in frequenti proposte di spostamento delle sedute o disdette, fine ad arrivare alle situazioni in cui c’è come la fantasia che lo psicologo/terapeuta debba rendersi disponibile “a richiesta” piuttosto che collocarsi dentro a un processo e una relazione di scambio in cui ambo le parti si impegnano garantendo la propria presenza, con un importante investimento emotivo e di tempo/denaro. In linea di massima posso dire che, sebbene la flessibilità sia una risorsa da utilizzare in alcune occasioni (ritengo per esempio che non si possa proporre in modo rigido un orario fisso a una persona che lavora su turni, o pretendere che un paziente non partecipi a un’importante riunione extra di lavoro perché si sovrappone all’orario della seduta, se fissata con un minimo di anticipo), la regolarità di frequenza e orario delle sedute è davvero parte fondamentale del processo terapeutico. E’ cioè importante che la persona, con l’aiuto del professionista, possa riuscire a conquistare, tutelare e mantenere il proprio spazio di cura.

 

SPAZIO

Che aspetto e caratteristiche hanno lo studio e la stanza di terapia?

Il Dr. Mari svolge le sue terapie in uno studio che si trova all’interno della casa in cui vive. Sebbene sia dotato di doppia entrata (come spiega a più di un paziente incuriosito), l’ambiente sembra essere molto connotato in termini domestici, si ha cioè proprio l’impressione di trovarsi in un salotto piuttosto che in una stanza di terapia. Questa scelta non è effettivamente così infrequente nella prassi, capita cioè che dei professionisti (per lo più per ragioni di tipo pratico) decidano di adibire una parte della propria abitazione a studio. La cosa che mi sembra in un certo senso opinabile non è la scelta in sé, bensì - nel caso di quanto proposto da “In Treatment” – il rischio di un’eccessiva labilità dei confini casa-studio (per intenderci: lo studio-salotto è comunicante con la cucina di casa e in un paio di occasioni il paziente vi accede, entrando appunto in uno spazio diverso da quello “sacro” della terapia...l’intimità e quotidianità del terapeuta è a portata di mano facendo quasi scivolare la relazione fuori contesto).

Nella realtà, al di là della collocazione, le stanze di terapia possono avere aspetti molto diversi tra loro, a seconda dei gusti personali del terapeuta, del suo approccio, nonché dell’utenza (adulti / bambini; singoli/coppie/famiglie): se nello studio di uno psicanalista classico non mancherà il noto lettino, negli altri è assai comune trovare un piccolo divano (che può essere utilizzato sia per incontri individuali che di coppia) e delle piccole poltroncine o sedie che si prestano ad accogliere con flessibilità persone e situazioni diverse, oppure un piccolo tavolino e tappeto con l’occorrente per i più piccoli. Insomma, difficile stabilire regole in tema di spazio e arredamento. Personalmente preferisco uno stile minimalista e semplice che lasci ampio spazio alle persone e alla relazione.

Inoltre, salvo particolare esigenze di tipo pratico, per tutelare la privacy dei pazienti e per concedermi un tempo di recupero e concentrazione, prevedo una piccola pausa tra un appuntamento e l’altro.

 

RELAZIONE

Ci si dà del “Tu” o del “lei”?

Questa è un’altra frequente domanda che mi viene posta, o in alcuni casi direttamente “agita”: io di regola dò del “lei” (eccezion fatta per gli adolescenti) ed è capitato che qualcuno faticasse ad usarlo e iniziasse a darmi del “tu”, oppure a chiedermi il “favore” di darglielo perché in imbarazzo diversamente. Senza entrare in merito alla valutazione clinica, dico solo che è importante per me comprendere e condividere con la persona il senso di quell’imbarazzo o fatica per poi decidere se “uscire” dalla regola base del “lei” (che nella nostra cultura più facilmente segnala e definisce una relazione in termini professionali, aiutando a distinguerla da quelle familiari e amicali).

In “In treatment” mi sembra che la linea sia più o meno la stessa: il Dr. Mari dà del “tu” ai ragazzini che ha in cura e a una ragazza di 23 anni, dopo sua esplicita richiesta, mentre dà del “lei” a tutti gli altri. I pazienti danno del “lei” al terapeuta.

 

Quali confini deve mantenere il terapeuta nella sua azione?

Questa domanda si può declinare in infinite e a volte parecchio complesse questioni.

Ne prendo in considerazione qui un aspetto: il terapeuta deve necessariamente confinare la sua azione all’interno dello studio e dell’ora della seduta?

Direi che di base assolutamente sì (più o meno per lo stesso motivo per cui è importante la regolarità degli incontri), ma è a volte assai utile uscire da questa regola. Il Dr. Mari, per esempio, decide di accompagnare lui stesso una paziente in ospedale per iniziare la chemioterapia. Non prende però questa decisione guidato dall’impulso, bensì da una precisa valutazione clinica che lo incoraggia ad assumere il “rischio” di questa trasgressione del setting.

Nella stessa ottica è possibile pensare, per esempio, che fare una telefonata al paziente o offrirgli disponibilità a riceverla, in un momento particolarmente delicato, è possibile e sensato. La regola di base è però un’altra: lo scambio terapeutico avviene in seduta, attendere quel momento e riuscire a portare le proprie emozioni e questioni in quello spazio è importante.

Un’altra eccezione, è rappresentata dalla terapia a domicilio: in questo caso il professionista, in base a una precisa e attenta valutazione clinica, decide che è opportuno e utile spostare l’intervento a casa del paziente. Non mi dilungo qui sugli aspetti tecnici e sulle implicazioni in termini di setting, rimandando ad altri e specifici articoli sugli aspetti della psicoterapia a domicilio a Roma.

 

SUPERVISIONE

Ogni terapeuta fa una sua terapia o va in supervisione?

In realtà le due cose (terapia e supervisione) in genere non coincidono, ma vengono confuse dalla gente comune: spesso i pazienti mi chiedono, incuriositi, se è vero che anche i terapeuti (difficilmente la domanda è diretta a me in modo esplicito…) vanno in terapia o se non abbiano bisogno di “scaricarsi” dato che ascoltano per tanto tempo i problemi degli altri!

Diciamo che in genere ogni terapeuta ha fatto o ha in corso una terapia personale: alcune scuole di specializzazione lo prevedono come fase obbligatoria, mentre altre no, ma è comunque estremamente difficile che un terapeuta non attraversi questo passaggio durante la sua formazione. Ciò gli consente di sperimentare sulla propria pelle - nel ruolo di paziente - vissuti, emozioni e dinamiche attivati dalla relazione terapeutica, nonché conoscersi meglio così da affinare in un certo senso il proprio "strumento di lavoro". Cosa diversa è la supervisione (non obbligatoria), ossia un percorso fatto di colloqui (individuali o in gruppo con altri colleghi) in cui il terapeuta condivide con un collega più esperto alcuni casi clinici, alla ricerca di un aiuto per meglio comprendere e risolvere eventuali situazioni di impasse con i propri pazienti. E’ il caso proposto da “In Treatment” in cui le puntate relative al venerdì di supervisione, a mio avviso, hanno il compito e il merito di far comprendere meglio al telespettatore la complessità del lavoro terapeutico (ricco di intrecci e continui rimandi con la propria storia personale) nonché l’umanità e fallibilità del terapeuta che, nei fatti, si trova a compiere diversi “errori” nel suo lavoro, fino ad attraversare una vera e propria crisi professionale.  

Faccio un esempio. A proposito della scelta del Dr. Mari di avere lo studio dentro casa, Anna (suo supervisore) propone al collega una considerazione: sembra che il terapeuta accogliendo all’interno del proprio salotto i pazienti stia esprimendo, in un momento della propria vita personale difficile e di profonda solitudine (a seguito di una dolorosa separazione coniugale) il bisogno di rivitalizzare la propria sfera affettiva e sociale.

 

Dunque, concludendo, direi che “In Treatment” non rispecchia fedelmente la realtà della relazione terapeutica in termini di setting, ma ne dà una rappresentazione accettabile, utile ad orientarsi. Mi sembra che questo sia un buon risultato per una serie tv, per altro ottimamente recitata e accattivante: ho personalmente seguito con estrema curiosità e piacere le diverse storie, trovando anche degli interessanti spunti clinici, nonché raccolto l’entusiasmo di parecchi telespettatori non terapeuti, incuriositi dal (a volte) poco conosciuto mondo “psy”.

Per cui direi che In Treatment non docet, però piace! 

Lo studio della Psicologa Laura Dominijanni a Roma è aperto dal Lunedi' al Sabato. Prenota un appuntamento usando l'apposita sezione Contatti