Psicologa Roma by

Uno dei contesti in cui il contributo dello psicologo è sempre più necessario e prezioso è indubbiamente la SCUOLA: luogo affettivo e sociale in cui i ragazzi crescono e vivono oltre che “imparare” e in cui il loro disagio può quindi prendere forma e spazio, ma anche sistema con le proprie regole, obiettivi e organizzazione al cui interno devono trovare collocazione - alla ricerca di un sano e complesso equilibrio - i diversi membri di cui è composta e che le gravitano attorno (alunni, docenti, dirigenti, personale ata, genitori, etc.), nonché istituzione profondamente colpita da anni di politiche disattente.


I possibili livelli di INTERVENTO sono molteplici:

  • individuale (sportelli di ascolto rivolti ad alunni, insegnanti, genitori);
  • gruppo classe (laboratori espressivi, progetti di alfabetizzazione emotiva, integrazione, prevenzione al bullismo, condotte adolescenziali a rischio, etc.);
  • corpo docente (corsi di formazione su comunicazione efficace, didattica inclusiva, psicopedagogia, disturbi dello sviluppo, BES, prevenzione burn-out etc.);
  • gruppo genitori (corsi di formazione su DSA, disturbi dello sviluppo, etc.);
  • sistemico (progetti multi-livello che prevedono cioè un intervento indirizzato a diversi livelli del sistema-scuola, con un focus sulla relazione tra genitori, insegnanti e alunni).

Se pensiamo al disagio presente negli alunni, l’opportunità di intervento a scuola è legata a diversi fattori:

  • innanzitutto c’è un’emergenza importante per quanto riguarda l’incidenza e la pericolosità delle condotte patologiche. Per dare un’idea: l’anoressia-bulimia colpisce circa 200mila ragazze ed è la prima causa di morte nelle adolescenti tra i 12 e i 25 anni, gli incidenti stradali la seconda e gli «agiti autolesivi» la terza (dati Istat); il 16% degli undicenni consuma abitualmente alcol; aumentano gli atti di bullismo a scuola, coinvolgendo un adolescente su cinque (ricerca svolta nell'ambito del progetto comunitario E-Abc Antibullying Campaign).
  • inoltre, molte condotte patologiche e disagi presenti in bambini e ragazzi, nonché gli stessi disturbi dello sviluppo, hanno una forte matrice relazionale e contestuale, per cui è importantissimo agire nella scuola in cui si manifestano e alimentano (e a volte insorgono).


Esiste però anche un sempre più forte disagio degli insegnanti, a volte schiacciati e scoraggiati dalla crescente burocratizzazione del loro ruolo e dalla mancanza di investimenti e riconoscimento sociale, spiazzati dal venir meno del patto di fiducia con le famiglie, in difficoltà nella gestione di classi e alunni “nuovi”, sempre più “interattivi” o portatori di Bisogno Educativi Speciali cui far fronte in modo competente. Insomma, le sfide per gli insegnanti di oggi sono numerose e il possibile contributo di uno psicologo prezioso per:

  • trasformare le spinte oppositive che si generano più o meno consapevolmente (sotto forma di insoddisfazione, passività, atteggiamento critico e distruttivo, creazione di sottogruppi e coalizioni, etc.) attraverso la promozione di senso di appartenenza e collaborazione tra colleghi;
  • allenare le competenze relazionali trasversali (tecniche di comunicazione efficace da “spendere” nella relazione con colleghi, dirigente, alunni, genitori, etc.);
  • fornire strumenti di intervento (tecniche di didattica inclusiva, pedagogia speciale per DSA, etc.) e lettura del contesto e del disagio che diano un senso di autoefficacia agli insegnanti.


C’è anche un disagio dei genitori, nella gestione delle problematiche dei figli e nel rapporto con la scuola, spesso eccessivamente delegata del ruolo educativo e poi attaccata.

Personalmente, in virtù di ciò che vedo quando guardo il mondo della scuola e del tipo di richieste che mi giungono, credo che i progetti multi-livello siano i più efficaci, perché in grado di rispondere alla complessità del sistema, mettendone in relazione i “pezzi”: i genitori devono sì fare gruppo e conoscere più da vicino le problematiche dei figli, ma anche rapportarsi adeguatamente con la scuola, fare squadra con gli insegnanti per proporsi in termini coerenti e affidabili ai ragazzi; gli insegnanti dal canto loro, oltre a superare i sottogruppi tra colleghi e trovare strategie efficaci di gestione della classe, devono riuscire ad aprire una comunicazione più efficace con le famiglie; infine i ragazzi devono trovare uno spazio di crescita e sperimentazione di sé e del gruppo adeguato, in cui le differenze possano venire accolte, sentendo di avere a che fare con adulti affidabili, attenti e partecipi piuttosto che spaventati e difensivamente autoritari. Agire solo su un livello o una parte del sistema è come prendere un antinfiammatorio per un dolore articolare: il sintomo probabilmente si allevierà o passerà del tutto, ma se la sua origine è legata anche a qualcosa di meno localizzato e più sistemico (es.: a una postura scorretta e a un uso insufficiente della muscolatura addominale) è probabile che senza un adeguato allenamento a diversi livelli il problema ricomparirà, magari in un altro punto…

Purtroppo, a fronte di un bisogno crescente dello psicologo a scuola, la sua presenza è lasciata per lo più alla sensibilità e disponibilità dei dirigenti scolastici (che possono attivarsi per finanziarne progetti e iniziative con i fondi per l’autonomia o partecipando a qualche bando regionale, europeo, etc.): in altre parole la figura dello Psicologo Scolastico – diversamente da altri Paesi – in Italia non è prevista come obbligatoria e questo fa sì che la sua presenza sia spesso spot e quindi meno efficace, oppure legata a un’urgenza. E’ facile che in questi casi ci sia una totale “delega all’esperto”, chiamato per risolvere (quasi miracolosamente!) specifiche problematiche: lo psicologo deve analizzare e trasformare tale richiesta per far uscire i committenti (docenti, dirigenti, genitori) dalla posizione passiva in cui si trovano. In altre parole, un cambiamento è possibile solo se c’è una reale disponibilità a mettersi in moto, riprendere potere e responsabilità, rivedere i propri modelli organizzativi e comunicativi lasciandosi guidare dall’”esperto”, il cui ruolo è quello di catalizzatore e non di attore protagonista.


Quando ciò avviene il processo di crescita che si innesca è notevole: ricordo, per esempio, lo stupore e il turbamento di un insegnante che, dopo un role-playing in cui vestiva i panni di un’alunna, riportò forti emozioni di imbarazzo, insicurezza e rabbia “sorprendentemente” vissute durante la simulazione di un’interrogazione difficile. A volte per guardare le cose da un’altra prospettiva (e sentirne quindi poi le emozioni, comprenderne i comportamenti che ne derivano) è necessario cambiare concretamente posizione…per poi tornare alla propria.
Lo psicologo, tra le tante cose, può aiutare a fare questo.

Lo studio della Psicologa Laura Dominijanni a Roma è aperto dal Lunedi' al Sabato. Prenota un appuntamento usando l'apposita sezione Contatti

Genitori e insegnanti si trovano spesso in difficoltà quando hanno a che fare con bambini oppositivi, che non rispettano le regole, che fanno confusione o che adottano comportamenti apertamente problematici.

Le reazioni più comuni e, ahimè, generalmente anche poco efficaci, sono:


- sgridare;
- fare le prediche;
- minacciare (spesso senza poi far seguire i fatti alle parole);
- punire.

In queste circostanze - come molti ben sapranno per via della propria esperienza diretta - circolano emozioni di rabbia e frustrazione sia nell’adulto che nel bambino, presi in una sorta di fallimentare braccio di ferro per il controllo della situazione.


E’ opportuno, proprio a tal proposito, porsi una domanda: perché i bambini “non si comportano bene”?


Una prima considerazione è che il desiderio di compiacere l’adulto conformandosi ai suoi desideri deve spesso fare i conti con la spinta verso l’autonomia: i bambini vogliono avere la sensazione di poter controllare la situazione!
Inoltre, diciamo la verità: comportarsi bene in genere richiede più impegno che comportarsi male! Pulire e mettere in ordine una stanza non è divertente come fare confusione, mettersi silenziosamente in fila per uscire dalla classe è più faticoso che muoversi disordinatamente chiacchierando con i compagni.


Risponde lo psicologo: come rendere efficace premi e punizioni 


Proprio per questi motivi, come ormai ampiamente condiviso dagli esperti del settore, sappiamo che: se si vogliono modificare specifici comportamenti è più efficace ricorrere a strategie che si basano su premi piuttosto che su punizioni!
I bambini sono infatti molto più motivati a fare qualcosa se così facendo ottengono un risultato positivo: “controllano” in tal modo la situazione attraverso il proprio comportamento e hanno una gratificazione per la fatica impiegata.


Le punizioni (date in risposta al non aver fatto quanto atteso) vanno invece usate solo in caso di necessità perché, sebbene possano agire da deterrente, non è escluso che inneschino dei comportamenti problematici, dettati dal risentimento e dalla frustrazione. Inoltre non fanno migliorare l’autostima del bambino. E’ comunque sempre auspicabile che coincidano con perdite di privilegi (es.: divieto di vedere la tv la sera), piuttosto che con l’obbligo a fare cose indesiderate (es: operazioni di aritmetica supplementari).
Inoltre, per quanto riguarda i premi, c’è da evidenziare che:

- forniscono ai bambini un incentivo temporaneo a provare nuove modalità di comportamento;
- possono essere concordati con il bambino, dandogli così l’attenzione e il “controllo” di cui ha bisogno;
- possono essere beni materiali, ma anche attività (per esempio tempo di gioco esclusivo con mamma o papà o con i compagni di classe);
- dovrebbero essere cose attraenti ma piccole (sebbene commisurate allo sforzo richiesto al bambino).

 

I programmi di gratificazione suggeriti dallo psicologo

Un modo per sfruttare il “potere” dei premi è quello di inserirli all’interno di un vero e proprio programma di gratificazione, da creare “ad hoc” per il bambino (o gruppo classe) che presenti particolari comportamenti problematici: tenendo conto di variabili quali temperamento, età, interessi e contesto, si dovrà pensare in modo creativo a un programma che motivi il bambino facendogli sentire che quello è il “suo” programma (di cui si terrà traccia attraverso opportuni tabelloni o simili).

Il primo passo, però, è decidere esattamente quali comportamenti modificare (quelli cioè che si verificano “ogni volta che”, creando disagio, confusione, conflittualità), scomponendo eventualmente il comportamento problema in componenti più piccole e partendo quindi da quelle più semplici. Se, per esempio, il comportamento che si vuole modificare è che il bambino lasci in ordine la propria stanza prima di andare a cena, evitando i continui richiami della mamma, bisognerà individuare alcune azioni specifiche (meglio non più di un paio) che dovrà compiere (es.: rimettere tutti i giochi nelle relative scatole, in massimo 5 minuti). Dovrà poi essere chiaramente stabilito anche il premio, le sue caratteristiche e le condizioni per ottenerlo.


Per utilizzare efficacemente dei programmi di gratificazione bisogna essere:

- positivi
lodare (in modo credibile, dunque non sproporzionato) i comportamenti positivi, comunicare fiducia al bambino rispetto alle sue capacità di comportarsi adeguatamente, premiarlo sempre quando ciò accade.
- coerenti
rispettare sempre quanto concordato nel programma, in altre parole dimostrare al bambino che “si fa sul serio”
- realistici
gli obiettivi definiti devono essere realistici e raggiungibili per il bambino che, altrimenti, perderà la motivazione.

 
Questo tipo di intervento è generalmente efficace per bambini tra i 3 e i 10 anni e può essere utilmente applicato per comportamenti quali: conflittualità tra fratelli, difficoltà a finire i compiti, comportamento inadeguato a tavola, etc.
Un particolare tipo è il sistema a punti strutturato, di cui parlerò in un successivo contributo.
Invitandovi a cambiare ottica, dando cioè più spazio ai rinforzi positivi e meno a rimproveri e punizioni, vi lascio ora sperimentare i cosiddetti “vantaggi invisibili” che ciò comporta:

- i bambini aumentano la propria autostima
- l’adulto viene percepito come persona equa, chiara e affidabile
- le interazioni con adulto-bambino diventano più piacevoli


Dunque, buon “gratificante” lavoro a tutti! 

 

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Genitori e insegnanti si trovano sempre più spesso alle prese con bambini “difficili”. In quest’occasione penso, in particolare, a quelli che esibiscono un comportamento oppositivo-provocatorio, che può iniziare a presentarsi già dai 3 anni ma che diventa in genere più evidente e “problematico” con l’ingresso a scuola, quando aumentano cioè le richieste di adattamento alle regole.
Questi bambini:

  • litigano frequentemente con i pari
  • sfidano richieste e limiti posti dagli adulti
  • sono collerici, accusano gli altri se rimproverati, mostrano rancore e offendono

 

In classe hanno una gran maestria nel fare andare a monte qualsiasi tipo di attività, anche se ben organizzata: scatenano risate generali, innervosiscono i compagni, assumono un atteggiamento di passivo rifiuto o di sfida aperta nei confronti degli insegnati. Inoltre, volendo sempre stare al centro dell’attenzione, hanno difficoltà anche nel contesto ludico: faticano nella collaborazione di squadra e nel rispettare l’alternanza dei turni.
Se la modalità comportamentale ostile si presenta in modo ricorrente e per almeno 6 mesi la si può definire come un vero e proprio disturbo. In ogni caso, anche di fronte a una forma “non clinica”, le questioni che si presentano all’adulto sono le stesse: come estinguere o far diminuire i comportamenti problematici che, come facilmente immaginabile, producono una compromissione del funzionamento scolastico e sociale e, quindi, anche problemi di autostima nel bambino? In altre parole: cosa fare?
E’ evidente che prendersene cura è molto difficile: sono causa di stanchezza, di scoraggiamento e di frustrazione per chiunque cerchi di instaurare con loro un rapporto.
Eppure genitori e insegnanti hanno degli strumenti a cui ricorrere, esistono delle STRATEGIE!
Partiamo da cosa non fare, ossia da alcuni “errori educativi” comuni, da evitare perché possono facilitare l’insorgenza o il mantenimento di condotte oppositivo-provocatorie:

  • permissivismo: la mancanza di regole definite impedisce al bambino di capire quali saranno le risposte dell’adulto alle sue azioni;
  • incoerenza: alternare punizioni e ricompense senza una ragione chiara, lasciandosi condizionare dal proprio stato d’animo (piuttosto che dall’oggettivo comportamento del bambino) lo disorienta;
  • iperprotezione: il controllo genitoriale eccessivo ostacola la crescita socio-cognitiva del bambino che, insicuro, può reagire con atteggiamenti di ribellione e sfida dell’autorità adulta;
  • uso eccessivo delle punizioni: ponendosi come modello d’apprendimento, la punizione rafforza la tendenza del bambino a risolvere i conflitti e imporre la propria volontà attraverso l’aggressività.

 

E ora COSA FARE: 

  • concordare e far rispettare poche regole chiare che tutti dovranno osservare in casa o a scuola, evitando la forma negativa (es.: “parlare a voce bassa” invece di “non gridare”);
  • preferire i premi (per i comportamenti positivi, anche piccoli, che conducono alla condotta desiderata) alle punizioni e darli in breve tempo, altrimenti l’effetto comportamentale svanisce;
  • scegliere le punizioni (comunque mai fisiche) solo per comportamenti molto gravi (esplicito danno verbale o fisico agli altri);
  • preferire sempre la perdita di un privilegio (es. uscire o usare il pc) alla punizione (es. fare qualcosa di spiacevole);
  • ignorare le “esibizioni” del bambino, ossia rimuovere il rinforzo derivante dall’attenzione degli “spettatori”;
  • spiegare al bambino le motivazioni che rendono inadeguata la sua condotta, senza formulare giudizi (per non gravare sulla sua già bassa autostima) e suggerire modalità alternative indicandone i vantaggi;
  • individuare e agire sugli antecedenti del comportamento problematico (attenuare o modificare l’esposizione alle situazioni che normalmente conducono a comportamenti oppositivi).


Insomma, in sintesi, ogni comunicazione (regole, comandi, rimproveri) deve essere data nel modo più possibile diretto, chiaro e semplice, senza formulare giudizi sulla persona (per es. “avevamo stabilito questa regola, tu l’hai infranta, quindi, come avevamo stabilito devi rinunciare a questo” invece di “sei stato cattivo, ora niente tv!”; oppure “bravo, hai apparecchiato la tavola senza fartelo ripetere due volte, ti meriti un premio”, invece di “bravo, oggi ti sei comportato bene”). Inoltre, è possibile pensare di strutturare un programma a punti, guadagnati e persi in funzione di premi e punizioni. In quest’ultimo caso, però, è particolarmente importante che l’adulto assicuri al bambino la massima coerenza e impegno nel monitorarne il comportamento.


Questi “terribili” bambini hanno insomma bisogno di limiti chiari entro cui muoversi, di sperimentare che possono essere gratificati e ricevere riconoscimento (affettivo e sociale) quando agiscono comportamenti positivi e di aggregazione. Hanno cioè bisogno di aumentare la propria autostima attraverso la relazione con l’altro e la costruzione di legami duraturi su cui far affidamento (invece di distruggerli). In questo percorso gli adulti hanno un ruolo fondamentale.


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La mediazione familiare è un intervento professionale di cui può usufruire la coppia separata o in via di separazione, qualora espliciti il bisogno di un tempo e di uno spazio appositi per pensare alla riorganizzazione familiare. Durante il percorso, i partner sono incoraggiati e guidati dal mediatore -terzo neutrale- ad elaborare gli accordi che meglio soddisfino i bisogni di tutti i membri della famiglia, con particolare riguardo all’interesse dei figli. L’obiettivo dell’intervento è dunque molto concreto: la messa a punto di un progetto di riorganizzazione delle relazioni genitoriali e degli aspetti materiali dopo la separazione o il divorzio. Gli accordi presi in sede di mediazione dovranno poi essere presentati al giudice per la ratifica ufficiale necessaria.
La Mediazione Familiare si propone quindi come una nuova e specifica risorsa volta a sostenere i genitori in conflitto durante la fase della separazione e del divorzio. Non a caso, nasce e si sviluppa in un contesto storico-sociale nel quale la co-genitorialità rappresenta un ideale da raggiungere, e la giurisprudenza (legge 54/2006) stabilisce l’affido condiviso come modalità elettiva di affidamento, dando al giudice il compito di valutarla prioritariamente.

Relativamente agli aspetti relazionali, i temi più frequentemente discussi sono:
l’affidamento dei figli, l’analisi dei bisogni di genitori e figli, la continuità genitoriale, il calendario delle visite del genitore non affidatario, le vacanze, la regolazione dei tempi e dei modi di frequentazione tra i figli e i componenti delle famiglie d’origine, le scelte educative, la comunicazione della separazione ai figli, la comunicazione tra i genitori, la relazione con gli eventuali nuovi compagni dei genitori, problematiche legate alla famiglia ricostituita, ecc….

Rispetto alle questioni economiche, invece, risultano oggetto di negoziazione tematiche quali:
l’assunzione degli impegni economici per i figli, la determinazione dell’assegno di mantenimento a favore del partner, l’assegnazione della casa coniugale, la divisione dei beni comuni, ecc….

E’ importante sottolineare che, in ogni caso, è la coppia che sceglie le problematiche da negoziare e gli accordi. In altre parole, il mediatore è responsabile del processo che dirige, ma non dei suoi contenuti, in quanto l’obiettivo più importante è che i due ex-coniugi si riapproprino delle proprie competenze genitoriali e decisionali, senza deleghe. Solo così gli accordi presi avranno la possibilità di resistere alla prova del tempo, in quanto realmente condivisi. Troppe, e troppo dolorose per tutti gli attori coinvolti, le storie di separazioni giudiziali, o consensuali che – poggiando su una conflittualità sottovalutata- non reggono la prova del tempo e il confronto con la realtà.
Vorrei invitare a riflettere sui vantaggi che, invece, possono derivare dal seguire un percorso di mediazione familiare. Innanzitutto a livello individuale:
1. maggior stima di sé e dell'altro
2. espressione delle emozioni ed elaborazione del lutto della separazione
3. ridefinizione della propria identità personale
4. analisi delle conseguenze personali derivanti dalla separazione.
Inoltre, a livello relazionale:
1. miglioramento delle capacità comunicative al di là del conflitto
2. riconoscimento dei bisogni di genitori e figli
3. continuità genitoriale e responsabilizzazione del reciproco ruolo genitoriale
4. possibilità di elaborare gli accordi autonomamente (senza deleghe all’autorità giudiziaria) e in modo paritario (senza imposizioni del genitore economicamente o emotivamente più forte).
Infine c’è l’importante e inestimabile vantaggio di vedere tempi e costi (economici ed emotivi) ridotti rispetto alle lunghe e dolorose controversie giudiziarie.

Inoltre, una mediazione ben riuscita svolge anche una funzione preventiva rispetto a future conflittualità, in quanto si propone come luogo di acquisizione, potenziamento e sperimentazione delle capacità negoziali della coppia: quando emergeranno esigenze e circostanze diverse da quelle iniziali (il che è inevitabile, dato che anche il ciclo di vita della famiglia separata va avanti), i due ex-partner saranno in grado di trovare nuove soluzioni autonomamente, con flessibilità.
Un’ultima riflessione riguarda la tangenzialità della mediazione familiare rispetto ad altri tipi di intervento, da cui peraltro si distingue per una serie di importanti aspetti. In particolare, la mediazione
1) non è una terapia
in quanto è centrata sul presente e sul futuro piuttosto che sul passato, sebbene utilizzi alcune competenze e strategie proprie del setting clinico. Inoltre, è un intervento molto strutturato, circoscritto nel tempo (in genere si articola in 8-10 sedute) e con obiettivi pre-definiti (il raggiungimento di accordi specifici, elencati nel “contratto di mediazione” sottoscritto dal mediatore e dai due partner prima di aprire la fase negoziale).
2) non è una consulenza tecnica
in quanto non si pone l’obiettivo di fornire al giudice informazioni sui rapporti esistenti tra il minore e i genitori, né di definire quale sia il migliore genitore affidatario, per cui non produce diagnosi sulle figure genitoriali, né di tipo psichiatrico, né psicopatologico, né relazionale. In altre parole, manca nella mediazione l’aspetto valutativo-diagnostico;
3) non è una consulenza psicologica, né legale
in quanto il mediatore non elargisce consigli, bensì stimola e guida i due partner alla ricerca di opzioni e soluzioni adeguate.

 

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“La separazione non è tanto un’opera e un lavoro individuale,
quanto piuttosto un’impresa di coppia.
Come insieme le persone si sono legate,
così insieme hanno il compito di separarsi” (V. Cigoli)

 

La nascita del primo figlio fa entrare la coppia in un nuovo stadio del proprio ciclo vitale e sancisce in un certo senso in modo definitivo il passaggio dei coniugi nell’età adulta. Si tratta dunque di un cambiamento con un notevole impatto psicologico, sia sul piano individuale che di coppia (senza trascurare l’effetto più ampio sul sistema della famiglia allargata in cui compaiono ruoli nuovi per zii, nonni, etc.). Nella rappresentazione sociale la coppia diventa solo in questo momento una “vera” famiglia, legata in modo definitivo da un ruolo -quello genitoriale- che è per sempre.
Come è facile immaginare, il nascituro è quindi caricato di grandi aspettative e, specie quando arriva a tarda età per la donna (che ha magari dato spazio fino a quel momento e con fatica alla propria realizzazione personale e lavorativa), diventa facilmente la rappresentazione di un “bene prezioso”, quasi unico e irripetibile.
In un contesto emotivo di questo genere aumentano anche le aspettative che i neo-genitori (e in particolare la madre) hanno su di sé e sulla propria “capacità” di essere adeguati nel nuovo ruolo.
Ovviamente le risorse a disposizione di ciascun genitore variano molto a seconda del contesto. In ogni caso, anche nelle situazioni “normali”, possono non essere sufficienti a contrastare adeguatamente tale pressione: per esempio perché nel passaggio dalla famiglia patriarcale a quella nucleare è quasi venuta meno per la donna la possibilità di avere nella famiglia estesa un contenitore per le proprie angosce e un sostegno pratico. Capita quindi spesso che la neomamma si trovi sola ad affrontare un momento cruciale e sconosciuto della propria vita, in cui cambia il proprio corpo, nasce un nuovo ruolo, etc.
Inoltre, sebbene attualmente la nascita di un figlio sia quasi sempre il risultato di una scelta consapevole e una forma di realizzazione personale da parte dell’adulto, non vanno dimenticate situazioni differenti in cui la gravidanza non è desiderata e cercata, oppure si colloca in un contesto familiare di particolare fragilità che rende ancora più faticoso -per le diverse figure coinvolte, non solo per la madre- affrontare le sfide che questa fase di passaggio pone: pensiamo, per esempio, a famiglie monogenitoriali, a contesti di estremo disagio socio-economico, oppure a situazioni in cui uno dei due genitori è molto periferico e assente o estremamente inadeguato nella sua funzione genitoriale (magari perché in carcere, tossicodipendente o affetto da un disturbo psichico importante).
E’ chiaro che in queste circostanze aumentano i cosiddetti “fattori di rischio” mentre diminuiscono i “fattori di protezione”, ossia le risorse a disposizione del sistema-famiglia. Ovviamente è importantissimo focalizzarsi su quest’ultime, individuarle e promuoverle.
In quest’ottica, lì dove il disagio sia importante e la rete familiare e sociale di sostegno (anche solo momentaneamente) non sufficienti a contenerlo e trasformarlo, è utile rivolgersi all’esterno, sia esso rappresentato da un libero professionista o dal consultorio di riferimento.
Difatti, per esempio, un intervento precoce sulla relazione caregiver-bambino può essere estremamente importante, andando a ridurre lo stress e il conflitto e rafforzando il processo di sviluppo nell’interazione, lì dove (per ragioni differenti, di cui alcune ipotizzate sopra) vi siano scambi interattivi caratterizzati da modalità di cura incoerenti, instabili o scarsamente sensibili: il genitore può essere aiutato nella difficoltà a sintonizzarsi con il proprio figlio e i suoi bisogni, nella gestione del senso di frustrazione e incompetenza che può avvertire di fronte ad atteggiamenti di rifiuto del bambino, etc. Potrà così sperimentare che la genitorialità è una competenza che si costruisce (e non acquisita per dna!) attraverso un processo circolare, in cui cioè i figli non hanno un ruolo passivo, ma di scambio. Inoltre, poiché attraverso il rapporto con il proprio bambino si rivive la propria infanzia e riemergono i modelli di attaccamento sperimentati con le proprie figure di riferimento, è possibile lavorare anche su questo aspetto (per esempio in un setting psicoterapeutico).
Quando possibile l’intervento sarà rivolto ad entrambi i genitori per dare loro un sostegno rispetto ad eventuali difficoltà nella gestione di alcune sfide - i cosiddetti “compiti di sviluppo” - poste dalla nascita di un figlio:

  • stabilire confini chiari tra il sistema coniugale e quello genitoriale;
  • prendersi cura del bambino;
  • fornire un valido modello di attaccamento affettivo ed educativo al figlio;
  • ristrutturare le relazioni con i propri genitori;
  • individuare le diverse regole del ruolo e delle funzioni dei nonni e dei genitori;
  • ridefinire i rapporti con l’ambiente esterno (lavoro, amicizie) in base alle esigenze della famiglia.

 

Le possibili aree critiche sono dunque tante, ma altrettanti sono i possibili percorsi di aiuto da attivare per affrontare le difficoltà e riattivare le risorse presenti nel genitore e nel contesto di appartenenza.

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