Psicologa Roma by

Gli studenti del quinto anno delle scuole superiori (e le loro famiglie…) sono alle prese, proprio in questi giorni, con le ultime fatiche di un passaggio importante: la maturità! Si tratta di una fase inevitabilmente carica di molte aspettative ed emozioni (prime fra tutte, ovviamente, la famigerata ansia!…), ma anche di un periodo di mutamenti, slanci e contemporaneamente incertezze e dubbi. Al di là delle differenze individuali, una cosa è abbastanza certa: la maturità è un passaggio che rimane nella memoria di ciascuno, come una sorta di netta linea di confine.

E in effetti, chi non ricorda la propria? Chi non se l’è ritrovata almeno una volta, vuoi o non vuoi, protagonista dei propri sogni (o incubi) notturni?! Chi non ha cantato più volte a squarciagola “Notte prima degli esami" di Venditti o sentito nostalgia nell’ascoltarla?! Chi non la utilizza come riferimento temporale per collocare alcuni eventi di quel periodo nel “prima” o “dopo”?

Una curiosità interessante: dall’anno scolastico 1998/1999 la denominazione corretta e ufficiale per l’esame che conclude il ciclo di studi superiori (fornendo al contempo un lasciapassare per l’Università o per altri corsi specialistici di formazione) sarebbe Esame di Stato…eppure la nota locuzione Esame di Maturità è ancora largamente utilizzata nel linguaggio comune, come a volerne a tutti i costi sottolineare l’indissolubile valore simbolico di passaggio e crescita. Ci si aspetta, insomma, che chi giunge a questo traguardo superandolo sia “maturo”.

Come dire, c’è un tempo per tutto…anche per maturare! Sì, ma…cosa significa essere maturi? Maturi per cosa? E soprattutto, può essere un esame a sancirlo? A questo proposito, io vedo l’esame più come un processo di attraversamento che non come un evento puntiforme (del resto, se ci pensiamo, prevede una preparazione e si articola in diverse “prove”): si tratta di muoversi da una sponda all’altra del fiume, di traghettarla.

In questo movimento emotivo di allontanamento e separazione, la dimensione del tempo è fondamentale: si deve salutare la riva conosciuta del tempo in cui tutto era organizzato e codificato (vedi sistema scolastico) per dirigersi verso quella più inesplorata del tempo delle scelte, delle responsabilità e dell’autorganizzazione. Insomma, in un certo senso “all’improvviso” si chiede al ragazzo neomaggiorenne di sapere chi è e cosa vuole nella vita e di agire adeguatamente di conseguenza. Caspita, tutto questo può fare decisamente paura o disorientare! Può venir voglia di non prendere il traghetto (come capita a chi non viene ammesso agli esami, o al quinto anno…”ma come, proprio quando il più era fatto?!”) o di rimanere fermi e spaesati sulla riva appena raggiunta (ragazzi che, nonostante siano riusciti a diplomarsi, si “bloccano” nel processo di crescita e autonomia subito dopo, con sintomi vari).

Quando si sente che il tempo della maturità non è ancora venuto, che non si ha lo slancio per andare con convinzione ed entusiasmo in una direzione, c’è la possibilità di una saggia e coraggiosa decisione: chiedere tempo al tempo, muoversi in esplorazione. L’etichetta che i ragazzi sono soliti dare a questo scenario è quella di “anno sabbatico”, espressione, a onor del vero, riadattata per l’occasione (dato che propriamente indica un tempo preso all’interno di una carriera lavorativa o universitaria, con l’obiettivo di dedicarsi a una precisa attività o ricerca e studio). Il bisogno che sottende questa decisione è però chiaro: prendersi una pausa, attraversare la crisi della crescita e della richiesta di definizioni acquisendo maggiore sicurezza e consapevolezza, riempire lo zaino di cose utili per il viaggio dell’età adulta. Devo dire che mi capita sempre più spesso di incontrare ragazzi che si trovano in questa fase e che mi chiedono di accompagnarli nell’esplorazione, ossia di rallentare la corsa, guardarsi intorno e attraversare quella che può essere percepita come una fitta nebbia con l’ausilio di un percorso psicologico.

In realtà, fermarsi e interrompere il flusso della rapidità e della routine in cui ci si trova immersi può essere una risorsa in diversi contesti e momenti della propria vita: è ciò che si fa in terapia creando nello spazio protetto della stanza una sorta di “sospensione” del tempo, così come è ciò che si tenta di fare andando in vacanza e “staccando la spina”. Ma soprattutto, non dimentichiamo che il tempo è uno strumento anche a scuola: la ricreazione facilita la socializzazione e consente agli alunni una fase di recupero di energie e concentrazione necessarie a seguire le lezioni; la scansione routinaria della giornata scolastica aiuta l’autoregolazione degli alunni, specie dei più piccoli; la pausa estiva è una ricarica e crea un “luogo” da cui osservarsi a distanza, condizione ideale per far emergere desideri, idee e “buoni propositi”, tanto per gli insegnanti quanto per gli alunni.

Diversi possono essere i “motivi” per cui un ragazzo non si sente pronto a intraprendere una strada precisa dopo la maturità: non c’aveva mai pensato prima, oppure era convintissimo del da farsi ma alla soglia della decisione ha “inspiegabilmente” vacillato, o ancora si sente “tirato” da una parte all’altra e fatica a distinguere le sue aspettative da quelle altrui o a deluderle, etc. In tutti questi casi di “immaturità”, una delle cose più mature da fare è forse proprio prendersi una “pausa esplorativa”, in una sorta di sospensione del tempo, che sembra a volte scorrere senza soluzione di continuità dal passato al futuro rendendo inafferrabile l’unica dimensione realmente tangibile e ricca di possibilità: il presente.

E mi viene in mente il tatuaggio che una ragazza (che mi ha chiesto di affiancarla nel “traghettamento”) ha deciso di farsi proprio in occasione del suo 19esimo compleanno e dell’imminente esame di maturità: una bella clessidra avvolta dalla scritta “catch the time!”….

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Quest'anno ho contribuito con 2 post al BLOG del FESTIVAL della PSICOLOGIA organizzato dall'Ordine del Lazio per la seconda volta: dopo il successo della prima edizione 2015, gli psicologi hanno confermato di voler "scendere in piazza" sia metaforicamente che concretamente...uscire dagli studi e dagli schemi per incontrare la gente, con i suoi dubbi, perplessità, desideri. 

Se non avete avuto la possibilità di partecipare in prima persona lo scorso maggio, a Roma, vi invito a leggere qui un pò di racconti!

BLOG del FESTIVAL DELLA PSICOLOGIA 2016

 

Terapia psicologica a domicilio 

Quando e perchè rivolgersi ad uno Psicologo 

Psicologo e scuola

 

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“Da soli si va più veloci, insieme si va più lontano” (proverbio)

Credo fermamente che una vera integrazione dell’alunno disabile con la classe possa avvenire solo se, specularmente, c'è una altrettanto vera integrazione dell’insegnante di sostegno con il resto del corpo docente (che è poi il concetto di isomorfismo).

Se siete insegnanti o genitori, saprete bene che le classi di oggi sono spesso molto (troppo) numerose e ricche di tante “diversità” e “specialità” che richiederebbero  attenzioni e didattiche personalizzate e inclusive. Non a caso, la recente normativa sui Bisogni Educativi Speciali (DM 27/12/2012) si muove proprio in questa direzione. Il  che si traduce, però, in nuove sfide, specie per gli insegnanti. [...]

 

LEGGI TUTTO L'ARTICOLO PUBBLICATO SUL SITO DELL'ORDINE DEGLI PSICOLOGI DEL LAZIO

 

Hai mai sentito parlare dell'AEC?

E' l'acronimo per Assistente Educativo Culturale, una figura sempre più presente e preziosa nelle scuole: si tratta di un operatore - dipendente del comune o di cooperative sociali - chiamato a fornire prestazioni di supporto e di assistenza agli alunni con disabilità.
Sto parlando di bambini o ragazzi che hanno ottenuto una certificazione di disabilità dalla ASL e che quindi, secondo la vigente legge 104/92, hanno diritto a misure di sostegno e integrazione.
Oltre cioè all’insegnante di sostegno, in molti di questi casi viene prevista anche l’assegnazione di un Assistente Educativo Culturale, per un monte ore settimanale congruo con il livello di gravità della disabilità (la valutazione viene fatta dalla ASL): la famiglia ne può fare richiesta alla scuola che, tramite il Dirigente scolastico, la inoltrerà all’Ente Locale di competenza.
Il contributo che tale operatore può dare è veramente prezioso, sia per gli insegnanti - sempre più affaticati da classi numerose e impegnative e, ahimè spesso, poco formati sulla disabilità - che per l’alunno.

In particolare, i principali COMPITI dell’AEC sono:

• sostenerne e promuovere l’autonomia dell’alunno;
• facilitarne il processo di integrazione e comunicazione in classe;
• rendergli accessibili le attività scolastiche (didattiche o ricreative che siano).

 

Per maggiori dettagli ti invito a scaricare e consultare il relativo e-book, realizzato in collaborazione con il Centro Studi FORePSY (link), una vera e propria guida dove trovare specifiche informazioni su:

- profilo e ruolo dell'AEC;

- differenze tra AEC e insegnante di sostegno

- competenze dell'AEC

- percorsi formativi

- come entrare nella scuola in qualità di AEC.

 

Buona lettura!

ASSISTENTE EDUCATIVO CULTURALE (AEC). CHI È E COSA FA A SCUOLA. E-BOOK GRATUITO!

 

 

 

Uno dei contesti in cui il contributo dello psicologo è sempre più necessario e prezioso è indubbiamente la SCUOLA: luogo affettivo e sociale in cui i ragazzi crescono e vivono oltre che “imparare” e in cui il loro disagio può quindi prendere forma e spazio, ma anche sistema con le proprie regole, obiettivi e organizzazione al cui interno devono trovare collocazione - alla ricerca di un sano e complesso equilibrio - i diversi membri di cui è composta e che le gravitano attorno (alunni, docenti, dirigenti, personale ata, genitori, etc.), nonché istituzione profondamente colpita da anni di politiche disattente.


I possibili livelli di INTERVENTO sono molteplici:

  • individuale (sportelli di ascolto rivolti ad alunni, insegnanti, genitori);
  • gruppo classe (laboratori espressivi, progetti di alfabetizzazione emotiva, integrazione, prevenzione al bullismo, condotte adolescenziali a rischio, etc.);
  • corpo docente (corsi di formazione su comunicazione efficace, didattica inclusiva, psicopedagogia, disturbi dello sviluppo, BES, prevenzione burn-out etc.);
  • gruppo genitori (corsi di formazione su DSA, disturbi dello sviluppo, etc.);
  • sistemico (progetti multi-livello che prevedono cioè un intervento indirizzato a diversi livelli del sistema-scuola, con un focus sulla relazione tra genitori, insegnanti e alunni).

Se pensiamo al disagio presente negli alunni, l’opportunità di intervento a scuola è legata a diversi fattori:

  • innanzitutto c’è un’emergenza importante per quanto riguarda l’incidenza e la pericolosità delle condotte patologiche. Per dare un’idea: l’anoressia-bulimia colpisce circa 200mila ragazze ed è la prima causa di morte nelle adolescenti tra i 12 e i 25 anni, gli incidenti stradali la seconda e gli «agiti autolesivi» la terza (dati Istat); il 16% degli undicenni consuma abitualmente alcol; aumentano gli atti di bullismo a scuola, coinvolgendo un adolescente su cinque (ricerca svolta nell'ambito del progetto comunitario E-Abc Antibullying Campaign).
  • inoltre, molte condotte patologiche e disagi presenti in bambini e ragazzi, nonché gli stessi disturbi dello sviluppo, hanno una forte matrice relazionale e contestuale, per cui è importantissimo agire nella scuola in cui si manifestano e alimentano (e a volte insorgono).


Esiste però anche un sempre più forte disagio degli insegnanti, a volte schiacciati e scoraggiati dalla crescente burocratizzazione del loro ruolo e dalla mancanza di investimenti e riconoscimento sociale, spiazzati dal venir meno del patto di fiducia con le famiglie, in difficoltà nella gestione di classi e alunni “nuovi”, sempre più “interattivi” o portatori di Bisogno Educativi Speciali cui far fronte in modo competente. Insomma, le sfide per gli insegnanti di oggi sono numerose e il possibile contributo di uno psicologo prezioso per:

  • trasformare le spinte oppositive che si generano più o meno consapevolmente (sotto forma di insoddisfazione, passività, atteggiamento critico e distruttivo, creazione di sottogruppi e coalizioni, etc.) attraverso la promozione di senso di appartenenza e collaborazione tra colleghi;
  • allenare le competenze relazionali trasversali (tecniche di comunicazione efficace da “spendere” nella relazione con colleghi, dirigente, alunni, genitori, etc.);
  • fornire strumenti di intervento (tecniche di didattica inclusiva, pedagogia speciale per DSA, etc.) e lettura del contesto e del disagio che diano un senso di autoefficacia agli insegnanti.


C’è anche un disagio dei genitori, nella gestione delle problematiche dei figli e nel rapporto con la scuola, spesso eccessivamente delegata del ruolo educativo e poi attaccata.

Personalmente, in virtù di ciò che vedo quando guardo il mondo della scuola e del tipo di richieste che mi giungono, credo che i progetti multi-livello siano i più efficaci, perché in grado di rispondere alla complessità del sistema, mettendone in relazione i “pezzi”: i genitori devono sì fare gruppo e conoscere più da vicino le problematiche dei figli, ma anche rapportarsi adeguatamente con la scuola, fare squadra con gli insegnanti per proporsi in termini coerenti e affidabili ai ragazzi; gli insegnanti dal canto loro, oltre a superare i sottogruppi tra colleghi e trovare strategie efficaci di gestione della classe, devono riuscire ad aprire una comunicazione più efficace con le famiglie; infine i ragazzi devono trovare uno spazio di crescita e sperimentazione di sé e del gruppo adeguato, in cui le differenze possano venire accolte, sentendo di avere a che fare con adulti affidabili, attenti e partecipi piuttosto che spaventati e difensivamente autoritari. Agire solo su un livello o una parte del sistema è come prendere un antinfiammatorio per un dolore articolare: il sintomo probabilmente si allevierà o passerà del tutto, ma se la sua origine è legata anche a qualcosa di meno localizzato e più sistemico (es.: a una postura scorretta e a un uso insufficiente della muscolatura addominale) è probabile che senza un adeguato allenamento a diversi livelli il problema ricomparirà, magari in un altro punto…

Purtroppo, a fronte di un bisogno crescente dello psicologo a scuola, la sua presenza è lasciata per lo più alla sensibilità e disponibilità dei dirigenti scolastici (che possono attivarsi per finanziarne progetti e iniziative con i fondi per l’autonomia o partecipando a qualche bando regionale, europeo, etc.): in altre parole la figura dello Psicologo Scolastico – diversamente da altri Paesi – in Italia non è prevista come obbligatoria e questo fa sì che la sua presenza sia spesso spot e quindi meno efficace, oppure legata a un’urgenza. E’ facile che in questi casi ci sia una totale “delega all’esperto”, chiamato per risolvere (quasi miracolosamente!) specifiche problematiche: lo psicologo deve analizzare e trasformare tale richiesta per far uscire i committenti (docenti, dirigenti, genitori) dalla posizione passiva in cui si trovano. In altre parole, un cambiamento è possibile solo se c’è una reale disponibilità a mettersi in moto, riprendere potere e responsabilità, rivedere i propri modelli organizzativi e comunicativi lasciandosi guidare dall’”esperto”, il cui ruolo è quello di catalizzatore e non di attore protagonista.


Quando ciò avviene il processo di crescita che si innesca è notevole: ricordo, per esempio, lo stupore e il turbamento di un insegnante che, dopo un role-playing in cui vestiva i panni di un’alunna, riportò forti emozioni di imbarazzo, insicurezza e rabbia “sorprendentemente” vissute durante la simulazione di un’interrogazione difficile. A volte per guardare le cose da un’altra prospettiva (e sentirne quindi poi le emozioni, comprenderne i comportamenti che ne derivano) è necessario cambiare concretamente posizione…per poi tornare alla propria.
Lo psicologo, tra le tante cose, può aiutare a fare questo.

Lo studio della Psicologa Laura Dominijanni a Roma è aperto dal Lunedi' al Sabato. Prenota un appuntamento usando l'apposita sezione Contatti

Genitori e insegnanti si trovano spesso in difficoltà quando hanno a che fare con bambini oppositivi, che non rispettano le regole, che fanno confusione o che adottano comportamenti apertamente problematici.

Le reazioni più comuni e, ahimè, generalmente anche poco efficaci, sono:


- sgridare;
- fare le prediche;
- minacciare (spesso senza poi far seguire i fatti alle parole);
- punire.

In queste circostanze - come molti ben sapranno per via della propria esperienza diretta - circolano emozioni di rabbia e frustrazione sia nell’adulto che nel bambino, presi in una sorta di fallimentare braccio di ferro per il controllo della situazione.


E’ opportuno, proprio a tal proposito, porsi una domanda: perché i bambini “non si comportano bene”?


Una prima considerazione è che il desiderio di compiacere l’adulto conformandosi ai suoi desideri deve spesso fare i conti con la spinta verso l’autonomia: i bambini vogliono avere la sensazione di poter controllare la situazione!
Inoltre, diciamo la verità: comportarsi bene in genere richiede più impegno che comportarsi male! Pulire e mettere in ordine una stanza non è divertente come fare confusione, mettersi silenziosamente in fila per uscire dalla classe è più faticoso che muoversi disordinatamente chiacchierando con i compagni.


Risponde lo psicologo: come rendere efficace premi e punizioni 


Proprio per questi motivi, come ormai ampiamente condiviso dagli esperti del settore, sappiamo che: se si vogliono modificare specifici comportamenti è più efficace ricorrere a strategie che si basano su premi piuttosto che su punizioni!
I bambini sono infatti molto più motivati a fare qualcosa se così facendo ottengono un risultato positivo: “controllano” in tal modo la situazione attraverso il proprio comportamento e hanno una gratificazione per la fatica impiegata.


Le punizioni (date in risposta al non aver fatto quanto atteso) vanno invece usate solo in caso di necessità perché, sebbene possano agire da deterrente, non è escluso che inneschino dei comportamenti problematici, dettati dal risentimento e dalla frustrazione. Inoltre non fanno migliorare l’autostima del bambino. E’ comunque sempre auspicabile che coincidano con perdite di privilegi (es.: divieto di vedere la tv la sera), piuttosto che con l’obbligo a fare cose indesiderate (es: operazioni di aritmetica supplementari).
Inoltre, per quanto riguarda i premi, c’è da evidenziare che:

- forniscono ai bambini un incentivo temporaneo a provare nuove modalità di comportamento;
- possono essere concordati con il bambino, dandogli così l’attenzione e il “controllo” di cui ha bisogno;
- possono essere beni materiali, ma anche attività (per esempio tempo di gioco esclusivo con mamma o papà o con i compagni di classe);
- dovrebbero essere cose attraenti ma piccole (sebbene commisurate allo sforzo richiesto al bambino).

 

I programmi di gratificazione suggeriti dallo psicologo

Un modo per sfruttare il “potere” dei premi è quello di inserirli all’interno di un vero e proprio programma di gratificazione, da creare “ad hoc” per il bambino (o gruppo classe) che presenti particolari comportamenti problematici: tenendo conto di variabili quali temperamento, età, interessi e contesto, si dovrà pensare in modo creativo a un programma che motivi il bambino facendogli sentire che quello è il “suo” programma (di cui si terrà traccia attraverso opportuni tabelloni o simili).

Il primo passo, però, è decidere esattamente quali comportamenti modificare (quelli cioè che si verificano “ogni volta che”, creando disagio, confusione, conflittualità), scomponendo eventualmente il comportamento problema in componenti più piccole e partendo quindi da quelle più semplici. Se, per esempio, il comportamento che si vuole modificare è che il bambino lasci in ordine la propria stanza prima di andare a cena, evitando i continui richiami della mamma, bisognerà individuare alcune azioni specifiche (meglio non più di un paio) che dovrà compiere (es.: rimettere tutti i giochi nelle relative scatole, in massimo 5 minuti). Dovrà poi essere chiaramente stabilito anche il premio, le sue caratteristiche e le condizioni per ottenerlo.


Per utilizzare efficacemente dei programmi di gratificazione bisogna essere:

- positivi
lodare (in modo credibile, dunque non sproporzionato) i comportamenti positivi, comunicare fiducia al bambino rispetto alle sue capacità di comportarsi adeguatamente, premiarlo sempre quando ciò accade.
- coerenti
rispettare sempre quanto concordato nel programma, in altre parole dimostrare al bambino che “si fa sul serio”
- realistici
gli obiettivi definiti devono essere realistici e raggiungibili per il bambino che, altrimenti, perderà la motivazione.

 
Questo tipo di intervento è generalmente efficace per bambini tra i 3 e i 10 anni e può essere utilmente applicato per comportamenti quali: conflittualità tra fratelli, difficoltà a finire i compiti, comportamento inadeguato a tavola, etc.
Un particolare tipo è il sistema a punti strutturato, di cui parlerò in un successivo contributo.
Invitandovi a cambiare ottica, dando cioè più spazio ai rinforzi positivi e meno a rimproveri e punizioni, vi lascio ora sperimentare i cosiddetti “vantaggi invisibili” che ciò comporta:

- i bambini aumentano la propria autostima
- l’adulto viene percepito come persona equa, chiara e affidabile
- le interazioni con adulto-bambino diventano più piacevoli


Dunque, buon “gratificante” lavoro a tutti! 

 

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Genitori e insegnanti si trovano sempre più spesso alle prese con bambini “difficili”. In quest’occasione penso, in particolare, a quelli che esibiscono un comportamento oppositivo-provocatorio, che può iniziare a presentarsi già dai 3 anni ma che diventa in genere più evidente e “problematico” con l’ingresso a scuola, quando aumentano cioè le richieste di adattamento alle regole.
Questi bambini:

  • litigano frequentemente con i pari
  • sfidano richieste e limiti posti dagli adulti
  • sono collerici, accusano gli altri se rimproverati, mostrano rancore e offendono

 

In classe hanno una gran maestria nel fare andare a monte qualsiasi tipo di attività, anche se ben organizzata: scatenano risate generali, innervosiscono i compagni, assumono un atteggiamento di passivo rifiuto o di sfida aperta nei confronti degli insegnati. Inoltre, volendo sempre stare al centro dell’attenzione, hanno difficoltà anche nel contesto ludico: faticano nella collaborazione di squadra e nel rispettare l’alternanza dei turni.
Se la modalità comportamentale ostile si presenta in modo ricorrente e per almeno 6 mesi la si può definire come un vero e proprio disturbo. In ogni caso, anche di fronte a una forma “non clinica”, le questioni che si presentano all’adulto sono le stesse: come estinguere o far diminuire i comportamenti problematici che, come facilmente immaginabile, producono una compromissione del funzionamento scolastico e sociale e, quindi, anche problemi di autostima nel bambino? In altre parole: cosa fare?
E’ evidente che prendersene cura è molto difficile: sono causa di stanchezza, di scoraggiamento e di frustrazione per chiunque cerchi di instaurare con loro un rapporto.
Eppure genitori e insegnanti hanno degli strumenti a cui ricorrere, esistono delle STRATEGIE!
Partiamo da cosa non fare, ossia da alcuni “errori educativi” comuni, da evitare perché possono facilitare l’insorgenza o il mantenimento di condotte oppositivo-provocatorie:

  • permissivismo: la mancanza di regole definite impedisce al bambino di capire quali saranno le risposte dell’adulto alle sue azioni;
  • incoerenza: alternare punizioni e ricompense senza una ragione chiara, lasciandosi condizionare dal proprio stato d’animo (piuttosto che dall’oggettivo comportamento del bambino) lo disorienta;
  • iperprotezione: il controllo genitoriale eccessivo ostacola la crescita socio-cognitiva del bambino che, insicuro, può reagire con atteggiamenti di ribellione e sfida dell’autorità adulta;
  • uso eccessivo delle punizioni: ponendosi come modello d’apprendimento, la punizione rafforza la tendenza del bambino a risolvere i conflitti e imporre la propria volontà attraverso l’aggressività.

 

E ora COSA FARE: 

  • concordare e far rispettare poche regole chiare che tutti dovranno osservare in casa o a scuola, evitando la forma negativa (es.: “parlare a voce bassa” invece di “non gridare”);
  • preferire i premi (per i comportamenti positivi, anche piccoli, che conducono alla condotta desiderata) alle punizioni e darli in breve tempo, altrimenti l’effetto comportamentale svanisce;
  • scegliere le punizioni (comunque mai fisiche) solo per comportamenti molto gravi (esplicito danno verbale o fisico agli altri);
  • preferire sempre la perdita di un privilegio (es. uscire o usare il pc) alla punizione (es. fare qualcosa di spiacevole);
  • ignorare le “esibizioni” del bambino, ossia rimuovere il rinforzo derivante dall’attenzione degli “spettatori”;
  • spiegare al bambino le motivazioni che rendono inadeguata la sua condotta, senza formulare giudizi (per non gravare sulla sua già bassa autostima) e suggerire modalità alternative indicandone i vantaggi;
  • individuare e agire sugli antecedenti del comportamento problematico (attenuare o modificare l’esposizione alle situazioni che normalmente conducono a comportamenti oppositivi).


Insomma, in sintesi, ogni comunicazione (regole, comandi, rimproveri) deve essere data nel modo più possibile diretto, chiaro e semplice, senza formulare giudizi sulla persona (per es. “avevamo stabilito questa regola, tu l’hai infranta, quindi, come avevamo stabilito devi rinunciare a questo” invece di “sei stato cattivo, ora niente tv!”; oppure “bravo, hai apparecchiato la tavola senza fartelo ripetere due volte, ti meriti un premio”, invece di “bravo, oggi ti sei comportato bene”). Inoltre, è possibile pensare di strutturare un programma a punti, guadagnati e persi in funzione di premi e punizioni. In quest’ultimo caso, però, è particolarmente importante che l’adulto assicuri al bambino la massima coerenza e impegno nel monitorarne il comportamento.


Questi “terribili” bambini hanno insomma bisogno di limiti chiari entro cui muoversi, di sperimentare che possono essere gratificati e ricevere riconoscimento (affettivo e sociale) quando agiscono comportamenti positivi e di aggregazione. Hanno cioè bisogno di aumentare la propria autostima attraverso la relazione con l’altro e la costruzione di legami duraturi su cui far affidamento (invece di distruggerli). In questo percorso gli adulti hanno un ruolo fondamentale.


Lo studio della Psicologa Laura Dominijanni a Roma è aperto dal Lunedi' al Sabato. Prenota un appuntamento usando l'apposita sezione Contatti.

 

IL “CIRCLE-TIME”: UN UTILE STRUMENTO PER FACILITARE LA COMUNICAZIONE TRA DOCENTI E ALUNNI

Sono sotto gli occhi di tutti i grandi mutamenti che la complessità sociale ha portato nella scuola: sono cambiati gli alunni e le problematiche presentate, ma anche le loro famiglie, l’organizzazione scolastica, etc. Si modificano quindi i contenuti e la didattica ma, soprattutto, alla scuola come istituzione si chiede oggi qualcosa di nuovo e complesso: che fornisca un’educazione a tutto tondo, favorendo una crescita globale dell’alunno!

In un simile contesto gli insegnanti si trovano sempre più spesso con la sensazione di avere pochi strumenti, “schiacciati” tra crescenti complessità burocratico-organizzative e difficoltà di gestione delle “nuove” classi.

Le problematiche più frequentemente riportate sono:

  • difficoltà di ascolto (gli alunni si distraggono o non rispettano i turni di parola);
  • gestione di alunni con comportamenti più o meno sintomatici (che esprimono, quindi, un bisogno di “farsi vedere” tanto dagli insegnanti quanto dai compagni che va decodificato e canalizzato);
  • alunni poco partecipativi (che tentano di “passare inosservati” o di omologarsi).

 

Dunque, se è sempre più evidente che la scuola sta attraversando una fase di cambiamento importante (in cui -non lo dimentichiamo- si inseriscono anche la legge 170/2010 sui DSA e la recente normativa riguardante gli alunni con BES…), lo è altrettanto la convinzione che essa non può affrontarla con strumenti e strategie didattiche ed educative “vecchio stile”. Il modello di insegnamento frontale che centralizza la figura del docente offrendo a tutti gli alunni lo stesso tipo di stimoli è chiaramente inefficace per coinvolgere adeguatamente ogni studente (l’iperattivo, il disabile, il timido, etc.) nella lezione e vita di classe; sono necessarie piuttosto metodologie didattiche ed educative inclusive che favoriscano le competenze individuali, valorizzando le risorse e le differenze di ciascuno.

Sono necessari “spazi” diversi, che pur facendo i conti con la ristrettezza di risorse economiche, si configurino come risposte possibili.
Il circle-time è una di queste!

Ovviamente muoversi verso qualcosa di ancora non ben conosciuto può costare fatica, ma crediamo che l’unico modo per superarla sia guardare da vicino la novità fino a sperimentarla in prima persona.

Il circle-time si configura come un agile ma potente strumento per la promozione del benessere e dell’inclusione in classe. Dare a ogni alunno la possibilità di contribuire a un processo di gruppo all’interno di uno spazio e di un luogo appositamente costruiti, può essere un primo passo per far sperimentare a ciascuno – all’interno di una cornice protetta- qualcosa di nuovo, da poter poi “portare fuori” in altri contesti.
Il punto di partenza per l’utilizzo di un simile strumento è la convinzione che tutti noi abbiamo potenzialità diverse e che ognuno (sia un alunno con BES o meno), nella sua diversità merita, soprattutto a scuola, di essere riconosciuto, fortificato, gratificato, valorizzato e migliorato.

 

COS'E' E COME SI SVOLGE UN CIRCLE-TIME?

Si tratta di un metodo di lavoro, pensato per facilitare la comunicazione e la conoscenza reciproca nei gruppi. In ambito scolastico trova un’ottima applicazione: gli alunni si posizionano su sedie disposte in cerchio, cosicché ciascuno possa vedere ed essere visto da tutti, lasciando libero lo spazio al centro, sotto la guida di un adulto (preferibilmente un insegnante della classe). La comunicazione avviene secondo regole condivise all’inizio e finalizzate a promuovere l’ascolto attivo e la partecipazione di tutti (può essere utile, per esempio, stabilire che i turni di parola siano ritualizzati dal passaggio di un oggetto).

Il “tempo del cerchio” ha una durata fissa all’interno della quale possono essere proposte delle attività strutturate guidate dall’insegnate oppure lasciata libertà di discussione (a seconda della fase del gruppo e delle specifiche esigenze della classe) su tematiche proposte dagli stessi alunni. All’interno del cerchio, l’insegnante ricopre il ruolo di facilitatore della comunicazione evitando di assumere posizioni centrali (per esempio fornendo soluzioni o risposte agli alunni): l’obiettivo è facilitare la cooperazione fra tutti i membri del gruppo-classe, la creazione di uno spazio in cui ciascuno è incluso e chiamato a partecipare, sebbene con le proprie modalità e i propri tempi, in modo da soddisfare sia il proprio bisogno di appartenenza che di individualità.

E’ importante che la cadenza del circle-time sia fissa, affinché la classe abbia la sicurezza di avere un suo spazio di gruppo e impari quindi ad usarlo, a seconda dei bisogni che andranno emergendo di volta in volta. Si può pensare a incontri settimanali o quindicinali della durata di 60/75 min, guidati sempre dallo stesso insegnante (che potrebbe essere quello di sostegno) o meno. L’importante è che ci sia una programmazione, ossia che il gruppo docente senta questa attività come parte integrante della vita di classe (al di là di qual è l’insegnante che la porta avanti) e che, fungendo da “mente di gruppo”, la pensi ed elabori: una strategia che può aiutare gli insegnanti a lavorare meglio è proprio l’organizzazione di spazi in cui condividere l’esperienza in corso che, quindi, diventerà un’attività che riguarda l’intero corpo docente, un’opportunità per tutti.

La prassi ci dice che gli alunni si appassionano a quello che sperimentano come un piacevole e necessario momento di confronto, tanto da chiedere loro stessi che venga fatto e che le regole siano rispettate.

 

Dunque il circle-time:

  • Consente agli alunni di esprimersi e conoscersi meglio, valorizzando le differenze
  • Facilita l’inclusività
  • Permette agli insegnanti di conoscere meglio i propri studenti e la classe
  • Può essere uno strumento di prevenzione e gestione della conflittualità

La scuola si muove così non più solo in direzione del “sapere” e del “saper fare” ma anche e soprattutto verso il “saper essere”.