Psicologa Roma by

Un uomo finisce col diventare
ciò che crede di essere.
(M. Gandhi)

A molti sarà capitato di essere “etichettati” come paranoici, ma…cosa significa esattamente?!
Proverò a fare un po' di chiarezza su quali sono le caratteristiche e le dinamiche che sostengono la paranoia, nonché fornire un orientamento per individuare quegli aspetti ed elementi che permettono di distinguere tra un livello lieve e uno che, invece, merita attenzione clinica. Di fatti, molte persone formulano pensieri paranoici, prima o poi, ma ciò non significa necessariamente che abbiano un vero e proprio disturbo.
Ma andiamo con ordine.

 

COSA SI INTENDE PER PARANOIA

Nel linguaggio quotidiano si definiscono paranoiche quelle persone che tendono ad essere sospettose e a ritenersi facilmente vittima di persecuzioni o inganni, oppure che presentano elevati livelli di ansia e apprensione, intendendo quindi la paranoia come una forma rafforzata di paura o angoscia. Questa “etichetta”, per quanto non scorretta, è estremamente generica e ampia per cui, com’è facile immaginare, può finire per includere diverse situazioni non patologiche. Cosa diversa è, invece, parlare della paranoia da un punto di vista clinico.
Innanzitutto non si tratta di un disturbo d’ansia bensì di un disturbo del pensiero di cui la persona non ha coscienza e che la porta ad elaborare un sistema di credenze incentrate sulla convinzione di essere perseguitato o sottoposto a una minaccia concreta. Ciò può poi tradursi in idee quali: essere spiato, pedinato, preso in giro, vittima di complotti, attentati o avvelenamenti. Ne deriva una tendenza a non fidarsi dell’altro (in quanto percepito come mal intenzionato), ad averne paura, ad essere sospettosi e guardinghi.
Quando non si presenta nella forma di un disturbo delirante vero e proprio, la paranoia riguarda situazioni che possono effettivamente esistere nella vita reale e il comportamento della persona (il cui funzionamento, a parte la sospettosità, non risulta compromesso in modo rilevante) non è particolarmente stravagante o fuori le righe. C’è poi il caso del disturbo paranoide di personalità in cui le ideazioni persecutorie sono meno forti ma tendono a coinvolgere quasi ogni contesto di vita: il mondo è vissuto come ostile e guardato sempre con diffidenza e sospettosità, con conseguente predilezione per uno stile di vita solitario. Pensieri tipici sono: “appena ti rilassi ti fregano”, “non si può mai abbassare la guardia”, “ce l’hanno con me”, “sotto c’è una fregatura, sicuramente”. La persona è quindi solitamente ipervigilante e ipersensibile alle critiche, tende a biasimare gli altri e ad attribuire loro intenzioni malevole.   


La dinamica che innesca un circolo vizioso che si autoalimenta è la seguente: la persona, guidata dalla propria sfiducia e sospettosità, assume un atteggiamento ipervigilante (alla ricerca attenta di possibili segnali di minaccia o falsità da cui difendersi, perché ciò che normalmente può essere visto come un evento casuale, per un paranoide/paranoico può essere considerato intenzionale) e agisce in modo cauto e guardingo, apparendo spesso freddo, controllante, eccessivamente permaloso e polemico. Il suo atteggiamento “poco amichevole” promuove e rinforza eventuali comportamenti negativi negli altri (critiche, isolamento, etc.) che vengono poi assunti come “prove” della fondatezza dei propri sospetti. In tal modo il paranoico proietta e attribuisce all’esterno la propria aggressività (che nei fatti attiva), confermandosi così nella posizione di vittima. Quel che accade, quindi, è che, proprio come temuto, finisce per essere poi realmente attaccato, giudicato, isolato, fregato, etc. Questo ovviamente aumenta ancora di più la sua sospettosità e, in alcuni casi, può spingerlo a risposte aggressive di difesa. Il circolo continua così in un rinforzo crescente. Si tratta di una declinazione del noto e studiatissimo meccanismo della profezia che sia autoadempie.

Molto poco di certo, invece, si sa in termini di eziopatogenesi, ossia delle "cause" di questo disturbo. Una ipotesi (P. Fonagy) che ritengo interessante e che condivido è che la persona, durante la propria infanzia, invece di poter contare su una relazione di attaccamento sicura, abbia avuto a che fare con una disorganizzata a danno del processo di "mentalizzazione", ossia del processo di acquisizione della capacità di comprendere adeguatamente gli stati della mente altrui, orientandosi di conseguenza nell'interpretazione dei comportamenti e nelle relazioni interpersonali. In altri termini, il paranoico fatica a sintonizzarsi con l'altro, perchè gli è difficile spostarsi dalla propria posizione e distinguere ciò che è frutto di una propria interpretazione dal mondo esterno. Ecco che tutto diventa incerto e minaccioso. Inoltre, nella storia delle persone che sviluppano pensieri paranoici importanti, si trovano spesso esperienze traumatiche che le hanno effettivamente molto "esposte" e "minacciate", in assenza di adeguati fattori protettivi, ossia risorse (relazionali, cognitive, etc.) in grado di bilanciarne gli effetti negativi.

 

COSA FARE 

Un paio di criteri possono aiutare a capire se il pensiero paranoico è all’interno di un range di “normalità” o se, invece, può essere utile rivolgersi a un esperto.

  1. Grado di distorsione della realtà: non c’è alcuna (o poca) coerenza tra quanto accade e ciò che viene percepito dalla persona, per via della sua distorsione interpretativa.
  2. Pervasività: la paranoia intacca, in modo rilevante, diverse aree della vita della persona (affettiva, sociale, lavorativa).

 

Spesso è un familiare, “vittima” della paranoia del proprio congiunto (il contenuto del pensiero paranoico potrebbe essere, per esempio, un temuto tradimento del partner) a spingere per un consulto. Infatti, non avendo consapevolezza del meccanismo di distorsione che caratterizza il suo pensiero ed essendo estremamente sospettoso, il paranoico raramente chiede aiuto. Ciò può però accadere quando gli “effetti” del sintomo sono fonte di grande disagio: la persona può rivolgersi a un terapeuta per fronteggiare i sentimenti di depressione, tristezza, ansia e angoscia che si associano all’isolamento in cui di fatto si ritrova. In altre parole, la persona non chiede aiuto per liberarsi dalla paranoia (che non riconosce e che di questo si alimenta), bensì per le sue “conseguenze”. E’interessante notare, a tal proposito, come molti presunti casi di mobbing lavorativo possano essere ricondotti a idee persecutorie del mobbizzato o venire “attivati” dai suoi comportamenti difensivi.


La grande sfida della terapia, in questi casi, è riuscire a costruire una relazione percepita dal paziente come sufficientemente sicura e affidabile, ossia far sperimentare alla persona un’esperienza riparatrice, un contesto in cui alleggerirsi della enorme tensione e fatica emotiva che comporta il difendersi costantemente dalle presunte minacce circostanti. E’evidente che non basterà sapere che il terapeuta è tenuto al segreto professionale perché la persona si fidi di lui. Ci vuole tempo e lavoro sulla relazione, affinché la stanza di terapia diventi un “contenitore” in cui portare emozioni e pensieri altrimenti “indicibili”, alla ricerca di un ascolto e di una risignificazione che possano abbassare i livelli di angoscia e fornire nuove lenti per interpretare la (spesso minacciosa) realtà.

 

Ringrazio per la simpatica vignetta l’amico e disegnatore Paolo Casadonte ;-)