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Kramer contro Kramer: Crisi di coppia e separazione

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Il dolore e il conflitto nelle separazioni coniugali

A distanza di tantissimi anni dalla prima volta, mi ritrovo a guardare nuovamente “Kramer contro Kramer” e l’impatto è ancora più intenso che in passato: all’epoca ero solo una ragazza che, frequentando con passione un corso di recitazione teatrale, stava studiando il dirompente dialogo di apertura del film (quello in cui, sin dalle prime battute, la separazione entra bruscamente e inaspettatamente in scena “Ted, io me ne vado. Ecco le mie chiavi…”). Ero dunque concentrata a tentare di rubare ogni segreto interpretativo ai due strepitosi premi oscar, Meryl Streep e Dustin Hoffman, e poco altro. Probabilmente oggi sono cambiati i miei occhi, oltre a non aver alcun “compito” da assolvere nel guardare il film: l’età e l’esperienza maturate tanto nella vita personale quanto in quella professionale, hanno decisamente modificato il gioco delle identificazioni e le mie risonanze emotive. Risultato: un film “perturbante”!

 

La separazione dal punto di vista di un padre

All’epoca definito dalla critica un dramma socio-psicologico, “Kramer contro Kramer” è una pellicola che ha oramai superato i 40 anni di vita, ambientata nella Manhattan di fine anni ’70, eppure capace ancora oggi di rappresentare vissuti emotivi, sfide e dinamiche di tante famiglie alle prese con gli sconvolgimenti della separazione.

Il film è particolarmente interessante perché dà ampio spazio a un punto di vista spesso trascurato nella narrazione (cinematografica e non) delle separazioni, specie fino a qualche tempo fa: quello maschile. E lo fa con una storia che capovolge il cliché “moglie abbandonata dal marito (magari fedifrago) che deve fare i salti mortali per crescere i figli da sola e lavorare”…  Qui ad “abbandonare il tetto coniugale” è la moglie, Joanna, una donna talmente schiacciata dalla vita familiare e travolta da una crisi esistenziale profonda, da non riuscire a fare altro che allontanarsi, anche dal figlio di 7 anni. Il tutto avviene, apparentemente, all’improvviso, come spesso accade nelle separazioni: il vissuto è di uno strappo inatteso, intenso, sconvolgente. Tanto per il marito Ted, quanto per il piccolo Billy che semplicemente al suo risveglio non trova più la mamma e deve “adeguarsi” alla colazione preparata da un padre poco avvezzo ai fornelli e incomprensibilmente nervoso. Sarà solo il primo di una serie di cambiamenti che il dolce Billy, vittima impotente delle scelte dei grandi, vedrà avvenire nel proprio quotidiano, parallelamente al non ritorno della madre. L’abbandono diventa per lui reale e innegabile quando gli giunge una lettera chiarificatrice e dolorosa: “sarò sempre la tua mamma”, parole che suonano come un addio definitivo, una lama che produce ritiro e rabbia nel bambino.

Il film ha il merito di raccontare il delicato processo di reciproco adattamento della diade padre-bambino alla nuova dolorosa e destabilizzante situazione, e lo fa senza edulcorare, ma anzi entrando nelle pieghe dell’ambivalenza e della turbolenza di questo rapporto, un rapporto che si trasforma gradualmente. Quando viene lasciato dalla moglie, Ted è un professionista in carriera, totalmente focalizzato sul proprio lavoro, che si ritrova quindi dall’oggi al domani a dover escogitare difficili soluzioni per conciliare i suoi doveri di padre con i pressanti impegni professionali (combattendo, tra l’altro, con un capo che sente come una minaccia al rendimento lavorativo avere come dipendente un padre separato…e qui, quante madri, separate e non, conoscono bene la storia?!). Il figlio sembra essere inizialmente soprattutto una preoccupazione e un peso per Ted, (come del resto spesso accade nelle prime fasi di elaborazione di un lutto - e la separazione lo è – ci sono negazione e rabbia) ma ben presto, il padre inizia a sintonizzarsi con i bisogni del figlio, a decodificarne meglio i comportamenti e a porsi come un valido riferimento affettivo genitoriale. Un legame che diventa per entrambi fortissimo, alimentato da abbracci, dialoghi commoventi e sguardi eloquenti.

 

Separazione e tribunali

L’equilibrio da poco raggiunto viene però sconvolto dal ritorno di Johanna che, a distanza di oltre un anno, ritrovata un po' di serenità e attraversata la crisi con l’aiuto di un percorso psicoanalitico, è decisa a rientrare nella vita del figlio e a chiederne l’affidamento. Qui si apre la seconda parte del film, quella che – ahimè - molte coppie conflittuali conoscono: la fase delle battaglie legali, della separazione giudiziale. In assenza di accordo tra le parti, e dunque quando non è possibile procedere in autonomia ad una separazione consensuale, o trovare un accordo con l’aiuto di un mediatore familiare, i partners - ciascuno rappresentato dal proprio avvocato - chiedono a un giudice di esprimersi in merito ai motivi del contendere (solitamente assegnazione della casa, assegno di mantenimento e modalità di affido dei minori).

In questa fase Ted e Johanna lottano ciascuno per il proprio “obiettivo”, ma a dispetto di ciò il loro sguardo sembra all’inizio sinceramente attento e interessato a cogliere la verità della narrazione che l’altro fa di sé, quando è interrogato dagli avvocati. I toni però si accendono più del previsto, i legali mirano a colpire i punti deboli della controparte, a screditarne l’affidabilità genitoriale mettendo mano violentemente ad altre sfere personali. Sembra che i due vengano, loro malgrado, travolti da questa dinamica del sistema giudiziario, finendo per sentirsi minacciati l’uno dall’altra e quindi legittimati a difendersi con ancora maggiore forza. Il dolore è visibile nei loro occhi, colmi di delusione e di rabbia. Sembra non rimanere altro che puntare alla vittoria, ottenere l’affidamento del figlio, dimostrare che si è un genitore migliore dell’altro. Anche qui, quante storie mi riecheggiano tristemente!…

La sentenza è a favore della madre. Ciò sembra inizialmente un’inaccettabile ingiustizia a Ted che pensa quindi di ricorrere in appello. L’escalation è dunque a portata di mano, ma apprendere che questo implicherà necessariamente un coinvolgimento diretto del figlio che dovrà essere ascoltato in tribunale, lo fa desistere dal procedere. Il padre riesce, dunque, nonostante sia molto doloroso per lui, a decentrarsi e a prendere in considerazione in modo prioritario il bene del figlio, a proteggerlo da ulteriori traumi e triangolazioni. Sorprendentemente, allo stesso punto arriva Johanna che decide all’ultimo di lasciare Billy al padre, piuttosto che sconvolgerne nuovamente gli equilibri emotivi.

Kramer contro Kramer diventa quindi, a mio avviso, un Kramer con Kramer: lo sguardo dei due partners in contrasto si trasforma in quello di due genitori che guardano entrambi in direzione del figlio. Un film che non prevede la rassicurante ma pericolosa distinzione tra vittima e colpevole, e che vede evolvere la logica “vinco-perdi” in “vinci-vinco”.

 

La genitorialità condivisa

Il film si ferma qui, ma la sua conclusione che racconta di una coppia capace di bloccare l’escalation legale e di rimettere al centro del proprio sguardo il bene supremo del figlio, fa propendere per una “prognosi positiva”. Immagino due persone che, nonostante il dolore e l’iniziale frattura e incomprensibilità della separazione, saranno in grado piano piano di ricomporne un senso, dunque di andare avanti nel processo di “elaborazione” che questo evento richiede (del resto già qualche tempo dopo la “sparizione” di Johanna, Ted non è più accecato dalla rabbia o fermo nel ruolo di vittima, e fa delle ipotesi sulla sua co-responsabilità: riguardando indietro vede un marito da tempo fagocitato nel proprio lavoro e sordo alle insoddisfazioni e turbamenti emotivi della moglie…). Immagino, inoltre, che questi due genitori saranno capaci di collaborare per essere presenti entrambi nella vita del proprio figlio.

Oggi, una coppia di questo tipo, in Italia avrebbe un affido condiviso (che dal 2006 è la modalità prioritariamente valutata dal giudice anche in caso di giudiziale). In questa formula, i genitori detengono entrambi l’affidamento (diversamente dal cosiddetto “affido esclusivo”) con modalità e tempi che vengono stabiliti dal giudice nel caso di contenzioso tra le parti, o dagli stessi genitori qualora la separazione sia consensuale. In entrambi i casi, il principio ispiratore è il diritto del minore alla bigenitorialità e la garanzia del suo bene supremo (dunque lungi da una rigida interpretazione del tipo “divisione 50-50” tra mamma e papà!).

 

Separazione coniugale: il ruolo dello psicologo 

Spesso arrivare a un accordo, senza ricorrere a una separazione giudiziale, è un “risultato” che la coppia ha bisogno di raggiungere con l’aiuto di un professionista: può accadere che rivolgendosi a un terapeuta per la propria crisi coniugale, i partners riescano a utilizzare lo spazio terapeutico per prendere una decisione in merito al futuro della propria relazione e, in caso di rottura, “elaborare la separazione” e in questa cornice costruire le basi per una consensuale.

Oppure, se la decisione della separazione è già presa, c’è sufficiente intenzione di collaborare per non inasprire il conflitto e trovare un accordo ma è difficile farlo da soli, ci si può rivolgere ad un mediatore familiare. O ancora, può accadere che sia uno solo dei partners a essere disponibile e desideroso di intraprendere un percorso di psicoterapia individuale, per affrontare le fatiche emotive che il processo separativo comporta: in questo caso, la terapia può aiutare la persona a essere più “aperta” a un atteggiamento collaborativo con il proprio ex partner, riuscendo a riconoscerne limiti e risorse e distinguendo la parte genitoriale da quella coniugale, nell’interesse del figlio.

Nelle circostanze in cui ci sia un’elevata conflittualità della coppia (caso estremo, ma anche frequente, quello in cui sussistano denunce) o condizioni di particolare “fragilità” (psichica o di altro tipo) di uno o entrambi i partners, l’intervento del giudice è inevitabile e potrebbero aprirsi altri scenari, quali CTU, affidamento ai Servizi, etc. In tutti i casi, pur nelle situazioni più complesse, il principio ispiratore rimane il bene supremo del minore e il suo diritto alla bigenitorialità, motivo per cui qualora fosse necessario e possibile, si predispongono dei percorsi finalizzati al recupero delle capacità genitoriali, per favorire il ricongiungimento dei figli con i propri genitori.